PALERMO. «Ce lo hanno chiesto dall’alto», dice Vito Galatolo allo stesso pm Nino Di Matteo, in un colloquio richiesto dallo stesso boss, in carcere, col magistrato del processo sulla trattativa Stato-mafia.
«Così era avvenuto anche per il dottore Borsellino, i mandanti sono gli stessi. Io ero giovanissimo, allora, ma seppi molte cose su quell’attentato...». A Di Matteo il neopentito ha detto cioè che qualcuno molto importante, non siciliano, lo vuole morto. Con la manovalanza di Cosa nostra, che però in questa storia sarebbe adeguatamente «coperta», garantita rispetto alle possibili conseguenze e alle reazioni dello Stato.
Il collaborante dell’Acquasanta, interrogato dal procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi, e dal capo della Procura di Caltanissetta, Sergio Lari, dopo avere chiamato in causa come organizzatore di tutto il superlatitante Matteo Messina Denaro, offre un ulteriore spunto investigativo: «Nelle lettere che ci mandò, il capo di Castelvetrano ci disse che l’esperto, l’artificiere lo metteva a disposizione lui».
Chi è dunque l’uomo che sarebbe capace di far brillare l’esplosivo che sarebbe già arrivato a Palermo, per il pm della trattativa? È un «interno» alle cosche o, come già avvenne per via D’Amelio (stando al racconto di Gaspare Spatuzza, che parla di una presenza esterna a Cosa nostra al momento dell’imbottitura di tritolo della 126 usata per l’attentato) potrebbe essere un «esterno»? Su chi può contare Messina Denaro, per una fase esecutiva che non escluderebbe l’obiettivo del palazzo di giustizia di Palermo e nella quale il boss avrebbe detto di disporre di una propria organizzazione?
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