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Totò Schillaci, dai campi agli studi tv: la seconda vita di una star per caso

Dopo il ritiro ha partecipato a diverse trasmissioni: dall’Isola dei Famosi a Pechino Express dove, nonostante fosse già scalfito dal male, si rimise in gioco

L'ultimo set – involontario – sul quale s’è trovato Totò Schillaci è stata la clinica La Maddalena, la mattina in cui arrestarono Matteo Messina Denaro. Lui era lì per un controllo, per tenere a bada quel male che ieri se l’è portato via. E anche in quell’occasione lo scarto tra persona e personaggio si disvelò in tutta naturalezza. Perfino con la spontaneità quasi adolescenziale con cui commentò quel momento: «Sembrava il Far West». Chissà se la frase è stata accompagnata dai famosi occhi sgranati, da quello stupore che è stata la sua cifra iconica, sui campi e fuori, dopo l’eccesso di clamore che seguiva un gol o dopo un ostacolo superato in un reality televisivo. Niente di studiato, in quello sguardo, lui stesso lo ha detto più volte, fossero felicità o sgomento a fargli ingigantire le pupille, nessun sospetto di posa a favore di telecamera. Era la faccia di Totò.

C’è sempre stato, questo scarto, tra persona e personaggio, nel goleador di Italia ‘90. A tutto vantaggio della prima: forse perché Schillaci temeva che ci fosse sempre qualcosa di artificioso nel Totò che si sarebbero costruiti gli altri attraverso telecamere e microfoni, che il giudizio mediatico trascendesse qualità e difetti dell’uomo o forse perché, in quel su e giù che è stato il suo cammino sotto il fascio dei riflettori, Totò dal Cep (si chiama San Giovanni Apostolo ma, in questa città che rinnega i santi della toponomastica, il Cep è il Cep così come nella vulgata lo Zen è lo Zen, mica San Filippo Neri) fosse talmente innervato nella realtà da non potersi concedere altro che sé stesso, poche deroghe, il divismo nemmeno sfiorato, già bastava e avanzava il mito delle notti magiche.

In questa maniera disarmata e poco ambiziosa – se non fosse stato per il piacere della gara, della corsa verso il traguardo, di una coppa o di una targa chiaramente simbolici e ovviamente di qualche ristoro economico – si è consegnato alla tv, in quel secondo tempo del match in cui era ormai tardi per segnare se non per passatempo o per beneficenza, a quella televisione che pescava e continua a pescare fra gente comune ed ex celebrità consegnate più all’affetto del ricordo che alla Storia.

Così si è tuffato – letteralmente – nell’Oceano Atlantico per partecipare all’«Isola dei famosi» nel 2004 ancora targata Rai2. 39 anni all’anagrafe e 57 giorni su un lembo di terra al largo della Repubblica Dominicana dove Totò sperimenta con occhi e con mani il divismo accattone di share degli altri, quello del bello e possibile Muniz o della Elia e della Yespica o del redivivo Sandokan-Bedi. Roba che non fa per lui. Sì, qualche scaramuccia, qualche gaffe ma quel che conta è mettersi in gioco. Ci crede tanto che con tenacia finisce terzo e avrebbe anche potuto aspirare a meglio se il sexy glamour del modello spagnolo e la nostalgia esotica dell’attore indiano non avessero avuto il loro peso su quella ghigliottina di democrazia satellitare chiamata televoto.

Ma dove la persona vince schiacciando il personaggio è in «Pechino Express» dell’anno scorso. Qui l’ex cannoniere arriva già ferito dal male ma in fase di recupero. Lo accompagna Barbara, la moglie. Qui c’è la confessione pubblica. E la voglia di riscatto, la volontà di mettere all’angolo il tumore tentando l’impresa estrema, la rivincita contro un avversario che stavolta si chiama anche sorte. Arrivano quarti, Totò e Barbara, ma mai come stavolta l’importante è partecipare, esserci, vivere un’avventura nuova e forse una nuova vita.

C’è anche una simpatica divagazione di Schillaci a «Back to school», il ritorno su banchi dove si capisce che alla futura star del pallone non sia stata data, ai tempi giusti, occasione di rifulgere. E anche qui, con le sue lacune, Schillaci mette in gioco sé stesso. E lo stesso fa, ma con una marcia in più, sfidando quasi la drammaturgia – e sempre schivando gli altari della sacralità calcistica, la retorica dell’ex campione, la gelosa custodia dell’antico carisma. anzi addirittura dissacrando il divo mundial – nel teatrino di «Quelli che il calcio», l’intrattenimento domenicale che negli anni più o meno coraggiosi dei pomeriggi festivi di Rai2 ha scalfito il rito del tifo e delle tifoserie.

Totògol è ora un attaccante di squadre scalcinate o ancora un asso di rally su improbabili automezzi, l’inverosimile sovrano di un kolossal fiabesco (“Il Totròno di spade”), perfino – con caustica autoironia – l’ambiguo commerciante di «pneumatici di indubbia provenienza» su una spiaggia. Ma anche in quella surrealtà puoi trovarci il ragazzo del Cep che si fece divo su un prato verde 34 anni fa e che si schermiva quando gli dicevano di recitare altrove quel ruolo.

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