Palermo

Giovedì 19 Settembre 2024

La sua vita tra Cep e Borgo Nuovo: Totò Schillaci simbolo della Palermo vera

L’uscita della bara dall’ospedale Civico
La moglie Barbara all’Ospedale Civico
 
 
 
La piazza della chiesa di San Giovanni Apostolo
 
La casa della famiglia Schillaci, al primo piano
Il complesso di edilizia popolare nel quale abita la famiglia Schillaci
I campi Ribolla
 
 

Con un pizzico di romanticismo, si potrebbe dire che la storia di Totò Schillaci si è svolta tutta in quei due chilometri scarsi che separano in linea d'aria il Cep da Borgo Nuovo. In mezzo c'è un mondo, fatto di vicoli e ruderi, di stadi straripanti e oceani attraversati in 59 anni rappresentando Palermo nel modo migliore, più preciso, meno retorico. Non è la Palermo felicissima, quella di Schillaci. È la città che si ribella a un destino già scritto, a una povertà di idee e coraggio più che economica. E lo fa sfruttando un talento innato, un dono di Dio. Nulla da costruire, solo tanto da preservare. Da non sprecare, come se anche questo nei quartieri popolari come in quelli dorati del centro non sia la cosa più difficile. E adesso è facile commuoversi mentre in piazza al Cep già si ascoltano gli anziani che ricordano di averlo visto tirare calci a un pallone e segnare in una porta fatta di stracci arrotolati sul selciato. È una gavetta che il Totò tornato dalle sue notti magiche all'Olimpico e poi in giro per il mondo aveva provato a risparmiare ai bambini di questo secolo. E lo ha fatto trasformando un campo polveroso, il Louis Ribolla di via Leonardo da Vinci – parte alta, quella che porta a Borgo Nuovo – in una scuola calcio. Anzi, no. In una culla di sogni. Un luogo in cui perfino lui avrà sperato di trovare qualcun altro capace di prendere il volo da questa città e raddrizzare il proprio destino e magari anche far felice l'Italia intera, almeno per qualche settimana. Perché questa è la parabola di Totò Schillaci e della Palermo che ha raccontato dando calci a un pallone. Queste sono le fotografie che riemergono, in bianco e nero, dei campionati nelle categorie minori. Dove si giocava un calcio vero, per non vincere altro se non una partita, lontano dai riflettori. Quelli in cui lui giocava nell'Amat (fino al 1982), mitica squadra che si misurava con altre leggende di un'epoca d'oro di cui riecheggiano nomi ormai sconosciuti ai più: c'erano la Fincantieri, la Cosmos, la Mediatrice, il Tommaso Natale e via così in un album virtuale di cui chiunque in città ha almeno una figurina a casa o dentro di sé. Totò era quello che era stato capace di andare oltre. Fuori Palermo, fuori da un'orbita che a chiunque altro sembrava obbligatoria, inevitabile perfino se si ha talento. E nella sua epopea è diventato un Ulisse moderno e meno sognatore. Il suo viaggio ha toccato Messina e incorciato maestri altrettanto mitici – Franco Scoglio e Zeman –, Torino (sponda Juve), Milano (Inter) e poi da lì è proseguito in Giappone per vestire la maglia di una squadra dal nome impronunciabile per qualsiasi palermitano, Júbilo Iwata. Fu a suo modo un esploratore, perché in Giappone non ci aveva mai giocato nessun italiano. Non c'erano televisioni che trasmettevano partite H24 all'epoca e per questo si favoleggiava, nei bar e nei circoli fra il Cep e Borgo Nuovo del suo stipendio faraonico, dei suoi gol, perfino delle sue nuove fidanzate. Perché anche in questo Totò è stato un figlio della sua Palermo. Travolto da amori e pene d'amore. Dagli sguardi ammirati che ogni tanto si trasformavano in invidia e altre volte in maldicenza. Almeno fino a quando proprio come Ulisse è tornato nella sua Itaca. Le notti magiche, le sue, erano già finite da un pezzo. E anche se gli italiani non le avevano dimenticate, lui non ha vissuto di nostalgia. Ha trasformato quel campo ai piedi di Borgo Nuovo in cui era facile sbucciarsi le ginocchia o rompersi una caviglia in un salotto fatto di erba e pali alti e bianchi. Come quelli dell'Olimpico. Non era solo il restauro di un salotto, era il tentativo di costruire un luogo di questa città per dare ad altri chance migliori di quelle che ha avuto lui. Glielo ha riconosciuto stamani anche l'arcivescovo Corrado Lorefice: «Palermo perde un simbolo di riscatto. Un ragazzo di umili origini che riesce a farsi strada nonostante gli ostacoli e le tante ostilità incontrate lungo il suo cammino, fino a diventare una vera e propria icona dello sport nazionale». Qui ha vissuto fino alla fine. Interpretando quello che ogni palermitano avrebbe voluto essere almeno una volta nella vita: uno su cui nessuno avrebbe scommesso e che invece ce l'ha fatta. Con tutte le sue debolezze, dai capelli rinfoltiti e tinti ai pianti in tv nei reality, fino alle ultime interviste in cui ha confessato senza timidezza la paura del cancro e della morte. Lo ha trovato a Palermo, la morte. In un momento in cui la città è costretta di nuovo a sognare di risorgere da un periodo buio. Perché fra le strade non si sentono da tempo i cori dei Mondiali del 90. Quella generazione ha perso slancio, entusiasmo, capacità di credere nei sogni. E c'è come il bisogno di gente come Totò. Che di questa città è stato probabilmente il figlio più vero, quello che più di tutti ne ha incarnato il carattere, nobile e maledetto. E lo ha mostrato con orgoglio. Con quegli occhi spiritati e aggressivi. Capaci di raccontare anche a chi non c'era che chiunque può arrivare sul tetto del mondo. Basta non sprecare talento. E non dimenticare mai da dove si è partiti. Lui è partito dal Cep e si fermato a Borgo Nuovo. Sembrano due chilometri appena.... In mezzo c'è Palermo.

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