I tre anni e sei mesi inflitti per estorsione aggravata dall’agevolazione e dal metodo mafioso all’ex capitano del Palermo calcio Fabrizio Miccoli, non dipendono da «una sorta di condanna etico-morale» dovuta alle dure parole ("E' un fango") intercettate e pronunciate dal giocatore di origine pugliese nei confronti del giudice Giovanni Falcone. Lo scrive, nella motivazione della sentenza, depositata tre giorni fa, la quarta sezione della Corte d’appello di Palermo, che l’8 gennaio - accogliendo le tesi del Pg Ettore Costanzo - confermò la condanna di primo grado, inflitta all’ex fantasista di Perugia, Juventus, Lecce e appunto Palermo, per essere stato il mandante di un’estorsione ai danni di un piccolo imprenditore. L’episodio di cui Miccoli, 40 anni, è stato riconosciuto colpevole, è preciso e rimanda piuttosto allo stretto legame dell’imputato «con soggetti gravitanti nel mondo criminale mafioso del capoluogo siciliano» di cui aveva «mutuato linguaggio e atteggiamenti». La vittima dell’estorsione, Andrea Graffagnini, fu costretta da Mauro Lauricella, figlio dell’ex latitante mafioso Antonino, detto lo «Scintilluni» (l'uomo che brilla), a pagare con minacce e pesanti intimidazioni 10 mila euro a un ex fisioterapista del Palermo, Giorgio Gasparini, per un debito legato alla cessione delle quote della discoteca Paparazzi, che aveva avuto tra i soci anche l’altro ex giocatore rosanero Andrea Barzagli, campione del mondo nel 2006 e poi passato alla Juventus. Lauricella è stato a sua volta condannato a sette anni, per la stessa vicenda, in un processo parallelo. La difesa di Miccoli, rappresentata dagli avvocati Giovanni Castronovo di Palermo e Gianpiero Orsino di Brindisi, ha preannunciato il ricorso in Cassazione. Nella motivazione, scritta dal presidente del collegio, Massimo Corleo, le offese a Falcone, per le quali Miccoli - processato col rito abbreviato - ha più volte chiesto scusa, in lacrime, non sono decisive: la Corte rimarca però l’ipocrisia dell’ex idolo dei ragazzini palermitani, che si è difeso dicendo di avere partecipato alla «partita del cuore» nel ricordo dei giudici uccisi da Cosa nostra. Nella realtà il vero atteggiamento di Miccoli era tutt'altro, ed esprimeva «l'assoluta dimestichezza con cui si muoveva in un paradossale e incivile tessuto comunicativo, espressione di un modo di essere e di intendere i rapporti con le istituzioni dello Stato». Nessuna «colpa morale», quindi, ma una precisa responsabilità penale, quella di avere affidato «a taluni soggetti e in particolare a Lauricella, la soluzione di alcuni problemi, propri o di altre persone».