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Mafia a Palermo, vecchi e nuovi boss in cella: due mandamenti decapitati

PALERMO. L'apocalisse era stata già prevista, nei dettagli: "Cento persone in carcere per un nuovo maxi processo, sgominate tutte le famiglie di San Lorenzo". Le parole del capomafia dell'Arenella Gregorio Palazzotto, ascoltato dagli inquirenti mentre scherza con il cugino, si sono avverate in meno due anni. Mesi di intercettazioni ambientali, telefoniche e pedinamenti per un'indagine "tradizionale" della Dda di Palermo che ha portato all'arresto di 91 boss, affiliati e fiancheggiatori delle cosche di San Lorenzo, Tommaso Natale e Resuttana, antico feudo dei Lo Piccolo e dei Madonia, mentre per altri quattro sono state disposte misure cautelari diverse. In carcere sono finiti vecchi boss e giovani leve, organizzati in labili gerarchie, che si adattavano ai duri colpi inferti dalle forze dell'ordine e alle accuse dei pentiti. I collaboratori, i cosiddetti "sbirri", sono una vera a propria piaga per l'organizzazione e Gregorio Palazzotto nel suo profilo Facebook non usa mezzi termini: "Non ho paura delle manette, ma di chi per aprirle si mette a cantare".     
Le intercettazioni audio e video rivelano le piccole e grandi spaccature all'interno dei clan, che fanno i conti con la crisi delle estorsioni ("Non sono più i tempi di una volta - si lamenta la moglie di uno degli arrestati - Prima a Natale e a Pasqua raccoglievamo con i secchi!") e con gli scarsi proventi del traffico di stupefacenti ("Minchia neanche con la droga si lavora più", dice uno dei capifamiglia), mentre cercano di arrabattarsi con il business delle pompe funebri e con la nuova frontiera delle scommesse. Tra i metodi adottati da Vito Galatolo, uno degli arrestati, per riciclare il denaro della "cassa" della famiglia mafiosa dell'Acquasanta, ci sarebbe stato anche quello di impiegare oltre 660.000 euro di proventi illeciti in scommesse calcistiche, "ripulendo", con le relative vincite, oltre 590.000 euro. I conti finivano nel "papello", il libro mastro dove venivano tenuti i movimenti della cassa.     
Le carriere in Cosa nostra sono rapide e l'organigramma si aggiorna al ritmo delle retate. I continui arresti favoriscono infatti il veloce inserimento di "picciuttieddi" (ragazzini) che spesso si rivelano gente inaffidabile, "scafazzati" in grado però di mettere a segno le solite intimidazioni con macchine bruciate e teste di capretto "condite" a dovere con proiettili al posto degli occhi. In un clima instabile, fatto di repentini cambi al vertice delle famiglie, frequenti liti a colpi di cazzotti e spedizioni punitive con tanto di sparatoria, a decidere è sempre la vecchia guardia: Girolamo Biondino, 65 anni, fratello di Salvatore, l'autista di Totò Riina, veniva ritenuto uno dei capimafia più autorevoli di Palermo. Ma lui, mafioso vecchio stile che non tollerava infrazioni al codice d'onore (come le amanti, che alcuni affiliati però continuavano ad avere), faceva di tutto per non apparire: andava in giro con l'autobus, non partecipava a pranzi con altri mafiosi, non usava il cellulare. Una vita da pensionato che non lo ha salvato da una delle retate più imponenti degli ultimi anni. In un mondo dove i veri mafiosi si salutano con il bacio sulle labbra, l'antica appartenenza a Cosa nostra è roba di cui vantarsi. "Noi è da cent'anni che siamo mafiosi - dice Palazzotto - Lo zio di mio padre si chiamava Paolo Palazzotto, ha fatto l'omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino, per conto di Cascio Ferro".     
Nelle intercettazioni "fiume" c'è spazio anche per il voto di scambio, con le metodologie più classiche. Un candidato dell'Udc, Pietro Franzetti, avrebbe contrattato con uomini della mafia l'acquisto di un pacchetto di voti: non gli servirono però per essere eletto consigliere comunale. Con una debacle proprio dove pensava di avere avuto più voti: "Ma proprio zero - dice al suo interlocutore -, ma come è potuto essere, San Lorenzo è zero". Forse la mafia non ha più il potere di una volta, oppure non rispetta i patti. Eppure il pizzo si paga a tappeto. L'unico a ribellarsi, come ha sottolineato il procuratore Francesco Messineo, è stato il titolare di una società che sta realizzando la più grande multisala cinematografica della Sicilia, nell'ex fabbrica della Coca Cola di Palermo.

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