PALERMO. Progetti di morte, di vendetta, di potere. L’operazione «Iago», che ha portato all’arresto di otto persone, oltre ad aver decapitato il vertice del clan mafioso di Porta Nuova, uno dei più importanti di Cosa Nostra nel capoluogo, e fermato sul nascere una pericolosa guerra tra esponenti di spicco dello stesso mandamento, ha di fatto evitato quattro omicidi che erano già scritti.
Il provvedimento di fermo per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, eseguito dai carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale dei carabinieri, coordinati dalla direzione distrettuale antimafia di Palermo, guidata dal procuratore capo Francesco Messineo, dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci, dal sostituto procuratore Francesca Mazzocco e dalla dottoressa Caterina Malagoli, ha riguardato Marcello Di Giacomo, 46 anni, Vittorio Emanuele Lipari, 52 anni, Onofrio Lipari, detto Tony, 23 anni, Nunzio Milano, 64 anni, Stefano Comandè, 28 anni, Francesco Zizza, 31 anni, tutti ritenuti affiliati alla famiglia mafiosa di Porta Nuova; Salvatore Gioeli, 47 anni, ritenuto affiliato alla famiglia mafiosa do Palermo Centro; Tommaso Lo Presti, 38 anni, indicato come reggente della famiglia mafiosa di Palermo Centro successivamente a Salvatore Gioeli. Milano, Lipari, Lo Presti e Gioeli erano tornati da poco in libertà e sono stati nuovamente condotti in carcere.
La morte di Giuseppe Di Giacomo, assassinato il 12 marzo scorso, pretendeva sangue. E nei suoi fratelli, Giovanni e Marcello, il desiderio di vendetta sarebbe stato incontrollabile: secondo gli inquirenti, progettavano di uccidere senza pietà coloro che ritenevano i responsabili del delitto, convinti da alcune insinuazioni venute a conoscenza di Giovanni, rinchiuso in carcere. Tre giorni fa la svolta, da un telegramma apparentemente innocuo.
«Caro Gianni la salute del bambino tutto bene, in un unico abbraccio ti siamo vicini». A scriverlo è Marcello, che comunicava al fratello ergastolano che tutto era pronto per «lavare col sangue» l’omicidio di Giuseppe. Il telegramma è del 17 aprile e ciò, per gli inquirenti, prova come il progetto di morte fosse attuale. Tanto da indurre gli investigatori a disporre il fermo d'urgenza degli indagati. Le vittime dovevano essere Onofrio ed Emanuele Lipari, ritenuti responsabili dell'uccisione di Giuseppe Di Giacomo.
In un’intercettazione si legge che Marcello riferiva che i Lipari, padre e figlio, traevano profitti economici da traffici di sostanze stupefacenti di cocaina e «fumo», nonché da un «pannello» di una sala scommesse che avevano realizzato in maniera autonoma e che nessuno sapeva. Marcello aggiungeva che i Lipari, con il loro comportamento volevano sovrastare e supervisionare i Di Giacomo. Inoltre Marcello ribadiva a Giovanni che subito dopo l'omicidio di Giuseppe i Lipari si erano repentinamente allontanati dalla loro famiglia senza alcun motivo, tanto che nessuno di loro, dopo l’assassino di Giuseppe, si era preoccupato delle «prime necessità» materiali come quello di provvedere al «mangiare» e attivarsi per organizzare il funerale.
I Lipari non erano i soli che dovevano essere eliminati. Un altro nome della lista era Luigi Salerno, detto «Gino», che doveva morire per dare il giusto esempio a tutti, per far capire chi comandava. La sua uccisione era un piano di Giuseppe e Giovanni Di Giacomo, nei mesi precedenti alla morte del primo. Salerno era accusato di essere stato sempre egoista e di avere sempre sfruttato la sua appartenenza all'organizzazione criminale al solo fine di ottenere vantaggi personali e di non rendersi disponibile quando invece la stessa ne aveva bisogno. Giovanni, infatti, chiedeva al fratello Giuseppe di incontrare Salerno e di dirgli testualmente «... che ... l'uomo d'onore si fa come è giusto farlo... e non a convenienza ...», definendo Salerno Luigi «un passa ... un passa ... un passa ordine di niente».
Il quarto obiettivo ha il nome di Giuseppe Dainotti, uno dei «picciotti» che doveva essere a breve scarcerato. Secondo i Di Giacomo Dainotti era uno che «metteva tragedie» nei confronti delle persone e che sarebbe andato contro Giovanni Di Giacomo stesso, raccontando cose non vere sul suo conto. Un uomo che i Di Giacomo consideravano «in malafede», dunque, e che per questo doveva pagare con la vita.