PALERMO. Il primo a lamentarsi, dal carcere, fu proprio Maurizio Russo, il marito della donna a cui sarebbero state fatte le avances. Ma per lui i boss — che lo ritenevano uno scafazzato, un poco di buono, tanto che dopo averlo pestato a sangue pensavano pure di toglierlo di mezzo — non avrebbero mosso un dito. Fu allora, secondo la ricostruzione della pentita Monica Vitale (giudicata la più verosimile dal gip Fernando Sestito), che sarebbe entrato in scena il cugino, Santino Russo, uno che nell’ambiente è ritenuto sicuramente molto più autorevole e influente, una voce che non può non essere ascoltata. Un mese prima dell’agguato avrebbe incontrato il capo del mandamento palermitano di Porta Nuova, Tommaso Di Giovanni, chiedendogli di intervenire: «Visto che non vedete mio cugino di buon occhio, almeno fatelo per rispetto mio».
La mano della mafia
È questo, secondo la Vitale, uno dei momenti cruciali per le sorti dell’avvocato Enzo Fragalà, ferito a morte il 23 febbraio 2010 e spirato tre giorni dopo in ospedale. Il particolare è contenuto nelle carte dell’inchiesta, una delle più complesse tra quelle condotte negli ultimi anni dai carabinieri del comando provinciale, che giovedì è culminata con l’arresto dei presunti killer — Francesco Arcuri (ritenuto l’esecutore materiale), Salvatore Ingrassia e Antonino Siragusa (due dei quattro basisti), tutti legati in qualche modo al clan di Porta Nuova — ma anche con l’individuazione di altri due soggetti, Antonino Abbate e Giuseppe Auteri, che avrebbero fatto da autisti e che adesso sono indagati a piede libero. L’unica certezza, al momento, è dunque il contesto in cui è maturato il delitto: considerata l’organicità o la vicinanza dei protagonisti a Cosa nostra, gli inquirenti hanno infatti pochi dubbi sulla mano mafiosa.
La pista passionale
Le divergenze di vedute riguardano invece il movente. La Procura (come anche i familiari, che bollano come «depistaggio» qualsiasi altra spiegazione) punta sulla pista politica o professionale, il gip invece ritiene più attendibile (e anche supportata di maggiori riscontri) la ricostruzione fatta dalla Vitale. La pentita sostiene che il penalista avrebbe proposto alla moglie di un cliente di pagare in natura duemila euro, l’acconto su una parcella. In questo caso, le date da tenere in mente sono due. La prima, il 14 dicembre 2009, corrisponde al giorno in cui Daniela Vetrano, moglie di Maurizio Russo (in quel periodo in carcere per un furto in casa) chiama per l’ultima volta lo studio dell’avvocato Fragalà. L’altra risale a una sera di gennaio del 2010, dalla quale secondo la pentita sarebbero passati «venti giorni, un mese assai assai e poi si è saputo dell’avvocato Fragalà...». Monica Vitale in quel periodo aveva una relazione con Gaspare Parisi, un elemento di spicco della famiglia del Borgo Vecchio molto vicino al boss Masino Di Giovanni. Quella sera di gennaio, secondo la pentita, Parisi avrebbe fatto più tardi del solito e davanti alle domande della compagna si sarebbe giustificato così: «no, dice, perché là a piazza Ingastone è venuto Santino, che sarebbe il cugino di Russo, tra cui si lamentava che l’avvocato Fragalà aveva fatto delle avances alla moglie di quello scafazzato di Maurizio (...)».
«Quando Russo fu pestato»
Ai pm Nino Di Matteo e Carlo Lenzi, che hanno coordinato le indagini dei carabinieri assieme al procuratore aggiunto Maurizio Scalia, la Vitale ha spiegato pure perché sarebbe stato necessario l’intervento del cugino di Maurizio Russo: «(...) non era molto a simpatia questo Russo per il clan di Porta Nuova, perché appunto dopo che noi facevamo dei furti di nostra competenza era prendere la percentuale del furto e darla alla famiglia mafiosa, ma noi questo non lo facevamo perché Russo diceva “noi andiamo a rischiare la galera e dobbiamo dare i soldi a loro? Non esiste...”. Così Di Giovanni ha saputo di questa cosa, infatti lo hanno pestato a sangue a Maurizio Russo (...) lo hanno pestato proprio a sangue e gli hanno mandato pure a fuoco un garage, a fuoco un garage con un Mercedes classe A ed un 300». E ancora: «(...) prima di essere arrestato, infatti lo stesso Abbate (...) mi ha detto che io gli ho salvato la vita due volte a Maurizio Russo, perché essendo che usciva con noi la sera, specialmente con me perché andavamo in cerca di chiavi, loro evitavano di sparare perché c’ero io presente e questo me lo confida Abbate quando rientra, rientra al Borgo che me lo dice... dice “due volte gli hai salvato la vita” dice “ma questo è scritto nel libro nero”».
Anonimi e depistaggi
Il 23 febbraio scatta l’agguato. Ma alle prime indagini seguono anche i primi depistaggi. Il 9 marzo esce un articolo sul Giornale di Sicilia che parla di Ivano Parrino, indicato come responsabile da una lettera anonima recapitata al presidente dell’ordine degli avvocati. A quanto pare è solo un modo per distogliere l’attenzione. E i boss, secondo la ricostruzione della Vitale, avrebbero trovato conforto nel fatto che in qualche modo venisse dato credito a questa pista: «... Sì, io mi ricordo che questa dichiarazione Parisi me l’ha fatta appunto quando è uscito un articolo sul giornale riguardo Fragalà dove i carabinieri si erano sbagliati su tutto e qui Parisi mi ha confermato tutto. E poi io stessa ho sentito Parisi parlare con Masino... a dire “hai visto che è uscito anche nel giornale che si sono sbagliati? Siamo stati fortunati” dice “perché” dice “ce ne vuole sbagliare Arcuri con Ivano”».