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Gesip, senza incarico: 1.800 a casa

PALERMO. Ancora un giorno a girarsi i pollici, mentre il ticchettio della cassa integrazione — cioè dei soldi pagati dai contribuenti — avanza inesorabilmente. Anche ieri, a parte gli 85 che hanno preso servizio negli uffici, la vincibile armata dei 1.800 operai della Gesip è stata di stanza a casa, nell’attesa che il Comune riesca a fare ripartire la macchina. Come soldati mandati allo sbaraglio, senza divise, senza armi, senza generali, senza ordini, gli operai sono rimasti ancora una volta in siesta forzata, mentre la città è stata a guardare l’orizzonte deserto dove i salvatori non arrivano mai. Dovunque una débacle. Ma perché non ci si è pensato prima? È vero, l’accordo è stato firmato in zona Cesarini, ma appare incredibile che il Comune non si fosse comunque attrezzato nell’ipotesi — che era la più probabile — della concessione della cassa integrazione con il ritorno al lavoro per venti ore settimanali. Al verde — mentre le aiuole annegano nell’incuria e nel sudiciume — si cercano ancora guanti, scarpe e tute per mettere al lavoro i quasi 600 addetti che al momento sono affidati a loro stessi, tanto che l’assessore Giuseppe Barbera sta cercando di correre ai ripari con un vertice, oggi, in cui conta di integrare gli operai con i giardinieri del Comune.  Il servizio di trasporto disabili rasenta la pochade, con i 59 addetti che non sanno neanche in che condizioni siano gli otto mezzi (sei Ducato e due oblò) che prima dell’implosione Gesip servivano a trasportare 150 bambini da scuola a casa, oppure alle terapie, alle gite e alle feste. Sembra che siano ancora in garage, malconci e con le batterie a terra. «Pare che il Comune si stia mettendo in modo per risistemarli — dice uno degli addetti, Giuseppe Russo — noi aspettiamo indicazioni dall’ufficio H sui bambini e gli adulti da prendere in carico. Certo è che, per quel che riguarda i bambini, la scuola è quasi finita». Per non dire che si è scoperto adesso che circa 400 dei 1800 operai devono ancora fare il corso di formazione che — ennesima tegola burocratica — è obbligatorio per accedere alla cassa integrazione. Così il 2 maggio, giorno in cui le truppe sarebbero dovute tornare al lavoro, un paio di centinaia di loro anziché imbracciare pale e mazzuoli, si è messa sui banchi di scuola all’Enaip, uno degli enti di formazione regionale. In tutto un corso di 72 ore, che gli altri duecento devono ancora cominciare. Insomma, confusione assoluta, disorientamento assoluto, zero servizi per la città, che finora ha creduto che l’operazione Gesip non fosse solo funzionale a mantenere altri 1.800 stipendi. Che stipendi pieni non sono, d’accordo, perché di cassa integrazione si tratta, strappata alla Regione (che aveva escluso in prima battuta i dipendenti delle aziende pubbliche) con la necessità di far ripartire attività essenziali: parliamo comunque di 900 euro al mese, più gli assegni familiari e i contributi, a fronte di nessuna mansione. Chissà che cosa ne pensa l’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero, sotto la cui egida l’accordo è stato firmato. Un’intesa che ha steso una rete di protezione retroattiva (con la concessione dell’assegno di cassa integrazione dal primo gennaio al 30 aprile) e che ha previsto — grazie al ripescaggio di una legge desueta sui lavoratori di utilità pubblica, la 468 — il subentro dal 2 maggio del Comune nel pagamento delle spettanze mensili equivalenti alla cassa, a patto che gli operai lavorassero per le venti ore a settimana. Per gli operai l’80 per cento delle vecchie retribuzioni, per il Comune (cioé per i cittadini) una spesa di 15 milioni di euro per il periodo maggio-dicembre. L’alternativa sarebbe stato il licenziamento, con l’assegno di disoccupazione e poi l’assoluta incertezza. Non ci sarebbero stati assegni familiari (di cui si fa carico l’Inps) e i contributi previdenziali (sulle spalle della Regione). Insomma, un meccanismo ben congegnato. Peccato che al lavoro non sia tornato (quasi) nessuno.

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