Sono trascorsi 80 anni da quel venticinque aprile del 1945. Ottant’anni, densi di avvenimenti, nel corso dei quali, soprattutto per merito di quella classe dirigente raccolta nel Cln, non solo sono state cancellate le ferite della guerra ma è stato promosso uno sviluppo economico-sociale che ha fatto dell’Italia uno dei paesi più progrediti e civili del mondo. Il 25 Aprile è stato, dunque, giustamente onorato come festa nazionale, per divenire una data simbolica nella quale tutti gli italiani potessero riconoscersi, in cui l’orgoglio e l’appartenenza vincessero le divisioni e le polemiche. Desiderio contraddetto dai fatti, la ricorrenza si è, infatti, troppo spesso manifestata tutt’altro che un momento di concordia nazionale. Il motivo perché un avvenimento di tale portata non sia mai riuscito a incarnarsi complessivamente nella coscienza nazionale così da riscaldare i cuori di tutti gli italiani si ritrova nell’avere fatto della ricorrenza una festa di una fazione politica stimolando, in questo modo, l’innata propensione delle nostre genti a far prevalere gli interessi di parte su quelli generali.
«La Resistenza - scrive la storica Colombini riportando un errato comune sentire - sarebbe una faccenda da “rossi”… da “comunisti”, in riferimento sia a chi l’ha combattuta sia a chi ne ha tramandato il ricordo». Un pericolo avvertito da don Primo Mazzolari che, a pochi mesi della Liberazione, già denunciava le colpe dei partiti per quanto stava avvenendo. Si chiedeva, appunto, don Primo se proprio per colpa dei partiti la Resistenza «non avesse perduta la sua iniziale nobiltà, se avesse conservato intatto il patrimonio spirituale dei suoi Morti, se invece di costruire un ponte che avrebbe salvato l’Italia, avesse scavato una trincea». In effetti, quella trincea era stata scavata, e come! A colmarla non hanno certo contributo quelle associazioni partigiane che avrebbero dovuto pedagogicamente dare una connotazione chiaramente non di parte ad un evento che avrebbe dovuto essere patrimonio nazionale. C’è stata ancora, da parte di molti intellettuali e militanti una interpretazione della Resistenza che rivendicava ai partigiani comunisti, e ai loro eredi, una sorta di esclusività al punto da far ritenere marginale il contributo dato alla lotta di liberazione dalle altre fazioni politiche.
Temi e problemi, questi, avvertiti in più occasioni tanto è vero che, in un momento particolare della vicenda italiana, il presidente Carlo Azeglio Ciampi poteva con soddisfazione affermare: «Stavolta sì. Mi ha fatto piacere vedere che si realizza il sogno d'una Festa della Liberazione vissuta in un clima di concordia nazionale. In qualche modo s'è realizzato quel che avevo auspicato giusto pochi giorni prima della ricorrenza. Un 25 Aprile senza più rancori, all'insegna dell'unità nazionale». Una soddisfazione, quasi subito, tradita dai fatti tanto che il presidente Napolitano, nel suo discorso d’insediamento, sentiva la necessità di ribadire l’invito a superare «le vecchie laceranti divisioni, nel riconoscimento del significato e del decisivo apporto della Resistenza, pur senza ignorare zone d'ombra, eccessi e aberrazioni. Ci si può ritrovare - senza riaprire le ferite del passato - nel rispetto di tutte le vittime e nell'omaggio non rituale alla liberazione dal nazifascismo come riconquista dell'indipendenza e della dignità della patria italiana».
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