Una riflessione a 360 gradi sul tema della mafia e della lotta alla criminalità organizzata: rappresentanti del mondo della giustizia, della cultura e del giornalismo ne discutono oggi e domani nel corso del convegno «Mafie e antimafie oggi», presso la Sala delle Capriate del complesso monumentale dello Steri, sede istituzionale dell’Università di Palermo. L’iniziativa - organizzata dall’ateneo con i dipartimenti di Scienze politiche e relazioni internazionali, di Giurisprudenza e di Scienze economiche, aziendali e statistiche – fa parte degli eventi per le celebrazioni dell’anniversario delle stragi mafiose del 1992, in cui persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti delle scorte. I lavori saranno introdotti dai saluti istituzionali del Rettore, Massimo Midiri, del presidente del tribunale del capoluogo, Piergiorgio Morosini, e dai direttori delle tre facoltà, Angelo Mineo, Armando Plaia e Costantino Visconti e sarà presentato, in anteprima, il trailer del docufilm «1992: Falcone e Borsellino», realizzato dal regista Ambrogio Crespi. Nel corso della giornata si terranno quattro tavole rotonde, due di mattina e altre a seguire nel pomeriggio sui temi «Le organizzazioni mafiose tra continuità e mutamento», «L’antimafia sociale», «La rappresentazione mediatica della mafia» e «Mafie ed economia» mentre la quinta dal titolo «Gli strumenti giuridici di contrasto» è prevista per domani alle 9. Seguirà il dibattito finale, moderato da Giovanni Fiandaca, a cui parteciperanno il presidente della commissione bicamerale antimafia, Chiara Colosimo; il procuratore nazionale antimafia, Gianni Melillo; il procuratore capo di Palermo, Maurizio de Lucia; il presidente della commissione antimafia regionale, Antonello Cracolici, il presidente delle Camere penali italiane Francesco Petrelli e l’ex procuratore generale di Roberto Scarpinato. L’apertura e la chiusura sarà affidata al professore Giovanni Fiandaca, emerito di diritto penale, scrittore ed ex garante per la tutela dei diritti dei detenuti della Regione Siciliana, di cui pubblichiamo un suo intervento. Il tema delle mafie ha numerose volte costituito oggetto di studio e di iniziative convegnistiche presso l’Università di Palermo. Questo nuovo convegno reca nell’intitolazione un termine aggiuntivo: si parlerà non solo di mafie, ma anche di antimafie, al plurale. Il motivo è forse superfluo esplicitarlo. Nel corso degli anni sono andati emergendo approcci culturalmente, politicamente e giudiziariamente differenziati, da un lato, nel valutare sia i risultati finora raggiunti nella lotta alle mafie, sia i livelli di persistente inquinamento mafioso del sistema politico e delle istituzioni pubbliche; e, dall’altro, circa l’individuazione delle strategie di intervento da adottare in vista di un’attività di contrasto sempre più efficace. Questa diversità di approcci non di rado si traduce in forme di contrapposizione molto conflittuale, se non proprio aggressiva, tra i sostenitori dei diversi modelli di antimafia, e ciò certo non giova alla complessiva efficacia dell’azione di contrasto. Tra gli obiettivi prioritari del convegno rientra, innanzitutto, una riflessione aggiornata sullo stato attuale delle mafie tra continuità e mutamento. Nel rapporto tra tradizione e innovazione oggi prevale la prima prospettiva o la seconda? L’analisi andrebbe differenziata in rapporto a ciascuna delle tipologie socio-criminologiche di organizzazione mafiosa oggi compresenti nello scenario italiano e internazionale. Nel vagliare il rapporto tra continuità e mutamento, un interrogativo non secondario è questo: se sia empiricamente dimostrabile la tesi, o meglio l’ipotesi che l’agire mafioso tenda ormai a privilegiare il ricorso a metodi corruttivi, piuttosto che alla capacità intimidatrice intesa in senso tradizionale. È evidente che la risposta a un simile interrogativo finisce con l’incidere sui limiti di estensione del concetto attuale di criminalità mafiosa, consentendo eventualmente di ampliarlo rispetto al passato. Un altro importante tema di discussione riguarda la rappresentazione mediatica delle mafie. Al riguardo, vale la pena citare i risultati di sondaggio realizzato da Demos lo scorso anno, da cui risulterebbe che soltanto due cittadini su dieci approvano il modo col quale la stampa scritta e parlata informa sui fatti di mafia. Ciò che da tempo soprattutto difetta è l’autentico giornalismo di inchiesta, capace di documentare e analizzare il fenomeno mafioso con apporti conoscitivi autonomi e supplementari rispetto a quanto affiora dalle indagini giudiziarie e dalle sentenze. Si registra per di più un eccessivo appiattimento delle testate più attente alle vicende di mafia sul lavoro delle procure, con la tendenza a veicolare come verità accertate ipotesi accusatorie ancora sub iudice. Per non parlare di trasmissioni televisive che, dietro le apparenze del giornalismo di inchiesta, azzardano o assecondano suggestive ricostruzioni in chiave complottistica, con allarmistico sensazionalismo ed esasperazione drammatizzante, non di rado con la complicità esternante di magistrati o ex magistrati-star, pronti a collaborare alla celebrazione di processi mediatici che si sovrappongono ai processi giudiziari. Esiste anche, è vero, una parte del sistema mediatico meno appiattita sulla magistratura d’accusa e perciò anche più sensibile alla presunzione di non colpevolezza: ma si tratta di una parte tendenzialmente minoritaria del sistema mediatico, o peggio di testate collaterali a forze politiche pregiudizialmente inclini a difendere un peloso garantismo di parte o a corrente alternata. Si discuterà inoltre di mafia ed economia, di mafia e diritto. In proposito un importante capitolo è costituito dalle misure di prevenzione patrimoniale: dai più tradizionali sequestro e confisca dei beni di provenienza illecita alle più nuove misure a finalità terapeutico-recuperatoria dell’amministrazione giudiziaria e del controllo giudiziario, concepite per intervenire in maniera più gradualistica e flessibile sui condizionamenti mafiosi dell’attività imprenditoriale. Una cosa è nota: ai professori di diritto penale e al ceto forense le misure di prevenzione (comprese quelle patrimoniali) non sono mai andate a genio per la loro inguaribile natura di “pene del sospetto”. Non ultimo, sono state avversate per i danni che possono provocare al sistema economico- imprenditoriale a causa della deficitaria disciplina legislativa e del modo talora eccessivamente affrettato con cui i tribunali della prevenzione sequestrerebbero beni e aziende. Con minore sfavore – ma soltanto fino a un certo punto – vengono guardate le più nuove misure a carattere terapeutico- recuperatorio. Nella saggistica più recente, indirizzata soprattutto a un pubblico di non esperti, è stata anche riportata una significativa casistica di imprenditori infine assolti in sede penale, ma le cui aziende sono state ugualmente attinte da provvedimenti di confisca, stante la completa autonomia – riconosciuta dall’attuale ordinamento italiano – tra procedimento penale e procedimento di prevenzione. Una di queste vicende problematiche è in atto oggetto di ricorso presso la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo e di recente pende in parlamento italiano una apposita proposta di legge che punta a modificare il Codice antimafia nel senso di subordinare in vario modo il procedimento di prevenzione agli esiti di quello penale. Comunque sia, l’assetto complessivo degli strumenti della prevenzione antimafia, per quanto reso negli anni più recenti più articolato, flessibile e gradualistico, presenta a tutt’oggi un livello di legalità legislativa debole, disorganicità e difetti di coordinamento tra strumenti giurisdizionali e strumenti amministrativi che consentono alla magistratura di optare con soverchia discrezionalità nella scelta degli istituti di volta in volta applicabili, lasciando così un insieme di elementi di criticità e di zone d’ombra. Il nodo principale rimane quello dell’osservanza di maggiori standard di garanzia, anche al di là dell’abusata contrapposizione tra penale e non penale, che rischia di apparire astratta e ideologica. Le garanzie possono infatti essere potenziate con rinnovato impegno riformistico anche senza rinunciare a un binario della prevenzione come binario supplementare rispetto a quello strettamente penale. Il problema è di sostanza, non di qualificazioni giuridiche formali. Esistono, sul versante degli strumenti giuridici di contrasto, ulteriori profili problematici meritevoli di attenzione e riconsiderazione. Da un lato, sotto l’aspetto della qualità tecnica della legislazione penale, sostanziale e processuale, relativa al settore della criminalità mafiosa, dall’altro, sotto il profilo della gestione giurisdizionale dei reati di mafia, con riferimento anche al tipo di cultura giudiziale tendenzialmente dominante fra i magistrati antimafia. Lo stesso principale reato di mafia, cioè l’associazione mafiosa di cui all’art. 416 bis del codice penale, costituisce da circa un quarantennio un cantiere aperto di letture e riletture interpretative, sia rispetto ai suoi limiti di applicabilità con riferimento alle mafie straniere e a quelle domestiche delocalizzate, sia per la determinazione concettuale della normativamente indefinita condotta di partecipazione, considerata anche in rapporto al liquido e tuttora discusso concorso esterno. Si ripropone pertanto l’interrogativo se non sia opportuno in proposito un intervento di tipizzazione legislativa. Tutti temi, dunque, altamente controvertibili e che vanno discussi con sincero spirito pluralistico, senza adagiarsi su slogan o fomentare inutili contrapposizioni in cui qualcuno come al solito accampa la pretesa di avere sempre e comunque la verità in mano.