«Dopo la morte di Paolo Borsellino non ho più avuto il sostegno della Procura di Palermo. E dire che l’inchiesta su mafia e appalti, avviata da Giovanni Falcone, era partita bene. Perché? Non me lo spiego. Forse non hanno creduto in questa indagine, in ogni caso non bisogna chiederlo a me».
Per l’ex generale dei carabinieri e capo dei Ros, Mario Mori, il primo tassello della sua lunga storia giudiziaria - conclusa definitivamente con l’assoluzione anche in Cassazione nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia - avrebbe una data precisa: risalirebbe agli inizi degli anni Novanta, cioè allo scontro con i magistrati palermitani per quell’inchiesta, una frattura che si sarebbe acuita ancora di più dopo la cattura di Totò Riina.
Nonostante il grandissimo successo, è stato processato per aver favorito Cosa nostra per la mancata perquisizione del covo del boss. Accuse da cui è stato assolto ma, alla luce anche dell’ultima sentenza a lei favorevole, qual è il suo giudizio sui giudici che l’hanno trasformata in un imputato?
«Ho avuto l’orgoglio di utilizzare nel contrasto alla criminalità organizzata il sistema che usava il generale Dalla Chiesa nella lotta al terrorismo. Come responsabile del Ros, ho avuto a che fare con tutte le Procure d’Italia ed è sempre andato tutto bene, chissà perché i problemi sono nati solo a Palermo».
E allora le chiedo: qual è stato il motivo?
«Evidentemente c’è stata qualche incapacità, ovviamente anche mia. Quando si sbaglia, e ci sono due parti in contrasto, non è che tutta la ragione o tutto il torto è da un lato solo. Ma non posso che ribadire la mia buonafede e soprattutto l’efficacia del mio metodo che era accettato in tutta Italia».
Quali erano queste procedure?
«Le faccio un esempio: se sto seguendo una persona e questa incontra un latitante di mafia, da carabiniere ho l’obbligo di arrestarlo. Ma se lo catturo, c’è il rischio di ricominciare daccapo perché potrei tagliarmi tutti i collegamenti con la realtà che sto cercando di contrastare. Invece, con l’autorizzazione del magistrato, continuavamo a osservare, controllare e pedinare il nostro avversario per scoprire e sgominare tutta la sua struttura organizzativa».
Quindi, ritornando alla sua assoluzione nel processo sulla trattativa, per lei era un fatto assolutamente legittimo parlare con Vito Ciancimino per evitare altre stragi?
«Certamente. Ciancimino non era latitante, anche se risultava sottoposto a una serie di procedimenti. Era un informatore e come tale l’ho considerato: secondo il codice di procedura penale, l’ufficiale di polizia giudiziaria è autorizzato a trattare le sue fonti e può anche non rivelare la loro identità».
Quali erano i suoi rapporti con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?
«Conoscevo molto bene Giovanni Falcone, eravamo amici. Quando arrivai a Palermo, invece, Paolo Borsellino era a Trapani: la nostra frequentazione cominciò quando venne trasferito. Sono convinto che anche con lui sarebbe nata una bellissima amicizia perché umanamente Borsellino era un personaggio unico».
Generale Mori, dopo 20 anni sotto processo come si sente adesso?
«Provo una grande soddisfazione e un senso di liberazione. In questo periodo ho sofferto anche se nei momenti più duri ho sempre cercato di avere un atteggiamento positivo. È stata un’esperienza difficile, ma sono un agonista e questo mi ha aiutato molto, perché se uno si deprime, non è più in grado di reagire».
Ha provato molta amarezza per essere stato considerato una sorta di traditore dello Stato?
«Non c’è dubbio, specialmente per uno come me che ha scelto di entrare giovanissimo in Accademia e che ha fatto una scelta di vita, provenendo da una famiglia dove anche mio padre era un ufficiale dei carabinieri. È stato pesante sopportare queste accuse, mi sono battuto per dimostrare che non c’era niente di vero. La mia assoluzione è un giusto ristoro per l’Arma e in particolare per il Ros, il reparto investigativo più brillante di cui oggi dispone il Paese, artefice di un capolavoro investigativo come l’arresto di Matteo Messina Denaro. Vorrei aggiungere una notazione personale: sono estremamente soddisfatto per questa sentenza anche perché ha dato la possibilità di uscire da questo processo ad Antonio Subranni e a Giuseppe De Donno, due grandi investigatori ma anche cari amici».
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