La rovinosa caduta di un personaggio simbolo, chiamato a governare una scuola simbolo, avamposto fondamentale di un quartiere simbolo. Una desolante vicenda di misero accattonaggio sulla cui reale gravità – come è sacrosanto che sia – sarà presto o tardi chiamato a pronunciarsi un tribunale penale. Ma sulla quale incombe già oggi un giudizio morale ed etico che vale quanto una sentenza.
Un Cavaliere al Merito – alto riconoscimento ricevuto dalle mani di un orgoglioso concittadino presidente della Repubblica - che si mette a tracchiggiare sul riso, l'origano o il tonno da portarsi a casa, sottraendoli ai ragazzi non certo agiati di una scuola di frontiera. Un simbolo riconosciuto di legalità e antimafia in un quartiere perennemente sul ciglio della perdizione, che bara sui finanziamenti pubblici – insieme al vice e complice e ad altri presunti sodali - per guadagnarci uno smartphone o un tablet da regalare ai figli o un grosso televisore da piazzare in salotto. Il preside della scuola dello Zen - iconicamente intitolata a Giovanni Falcone - che finisce per tradire così platealmente quella parte sana di un quartiere che di guide morali, modelli di legalità, esempi virtuosi ha un disperato bisogno. Non c'è nulla in questa vicenda che sfugga alla sensazione di desolante amarezza. Dolorosa, più che negli effetti pratici, nei contorni morali della sua sostanziale pochezza: una volta tanto nelle cronache dallo Zen non scorrono fiumi di sangue, droga o denaro mafioso, non c'è un boss da arrestare, uno spacciatore da ammanettare o due o tre picciotti malacarne da rieducare. Stavolta le metastasi del malaffare non si dipanano nel buio scrostato dei vecchi casermoni-ghetto del quartiere. Ma infettano proprio chi in quel quartiere rappresenta lo Stato in una delle sue massime espressioni di territoriale tangibilità: la Scuola. Per un telefonino o una scatoletta di tonno in più.
Danno grave, effetti gravissimi. Una sorta di liberi tutti per chi può facilmente smoccolare contro uno Stato fasullo e ladro anch'esso. Verrebbe da chiedersi come ci si difende in questi casi, se non fosse che purtroppo a queste latitudini ci siamo tristemente abituati al rumoroso ammainarsi di presunte bandiere di legalità e antimafia, in uno scenario di confine sempre più sottile, labile, spesso invisibile fra virtù e vizio. Un doppiogiochismo che ammorba la credibilità e attendibilità di certe patenti, troppo spesso (auto)elargite a fini strumentali, personalistici, carrieristici. Per dirla con le parole del leader dell’antimafia, un colpo mortale all’antimafia stessa.
Scorrevamo ieri il nostro archivio fotografico, in cui spiccano i tanti scatti della preside della Falcone insieme con ministri e sindaci (passati e presenti), assessori ed esponenti dell'associazionismo, volontari e alunni, fino ai rappresentanti delle forze dell'ordine e il presidente del Coni. Una carrellata di iniziative di lodevole sostegno e supporto alle attività di una scuola di fondamentale presidio, dipanatesi negli anni dell'idillio e della ribellione al male, nei luoghi del male. E che anche questo giornale non ha mai esitato a promuovere e sostenere, cosciente e convinto del loro valore ideale. Dietro cui nel frattempo si dipanava però quel torbido intrigo che ieri si è tradotto in accuse pesantissime e arresti, cui aggiungere i nomi dei tanti altri indagati che certificherebbero l'esistenza di un vero e proprio sistema di squallide ruberie. Daniela Lo Verde – e gli altri nomi finiti nelle carte dell'inchiesta dei pm della Procura europea - avranno tempo e modo (oltre che il legittimo diritto) di difendersi dall'ignominia di quelle imputazioni. Ma nel frattempo bisognerà che subito, immediatamente, lo Stato si presenti compatto e convincente al cospetto dei 700 ragazzi della Falcone per spiegare che la via verso il riscatto e la redenzione dal gioco criminale dell'illegalità non solo mafiosa resta ancora aperta e percorribile, nonostante la melma lasciata lì da questa brutta vicenda. Urge farlo subito. O i faticosi e certamente non risolutivi pochi passi avanti fatti in questi ultimi anni saranno stati vani, inutili. Fasulli addirittura.
Nei giorni del drammatico lockdown, la preside si distinse per le iniziative a sostegno del quartiere, fra aiuti economici alle famiglie e - cosa che oggi suona beffarda - tablet ai ragazzi per continuare a studiare da casa. Per questo Mattarella volle premiarla. «Ho fatto solo il mio dovere – commentava trattenendo a stento la commozione al Quirinale - questa onorificenza è davvero un grande onore. La dedico a tutta la scuola e anche alla mia famiglia, mio nonno aveva ricevuto lo stesso titolo quando ero bambina». Se le terribili accuse oggi teorizzate e tratteggiate da intercettazioni audio e video apparentemente inequivocabili dovessero trovare definitiva conferma in un'aula giudiziaria, il Cavaliere al Merito della Repubblica italiana Daniela Lo Verde dovrà renderne conto - fra i tantissimi - anche alla memoria di suo nonno.
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