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Se si guarda solo il dito e si dimentica la luna

Auto in fiamme a Roma e accanto una scritta contro il 41 bis

Le urla, le accuse, le voci, i toni accesi si sovrappongono in Parlamento come nelle piazze degli scontri provocati dagli antagonisti, nelle case della frastornata gente comune e nelle carceri, polveriera su cui si sono seduti, uno dopo l’altro, tutti i governi in carica dagli anni di piombo in poi. Seduti, gli esecutivi di centro, di sinistra e di destra, su quella miscela esplosiva che è rappresentata - fra i mille altri problemi dei nostri istituti penitenziari, affollati oltre ogni limite di uomini e donne e di violenze, di telefonini, droga e suicidi - dalla coesistenza tra i detenuti di mafia e altre organizzazioni criminali con i terroristi, con quelli che una volta si autodefinivano prigionieri politici.

Di tutto questo mix esplosivo ma anche scivoloso e spesso incontrollabile, si è persa, nei giorni del caso Cospito - coinciso, ovviamente per una pura casualità, con la cattura di Matteo Messina Denaro - la dimensione pratica, la consistenza reale, il significato autentico, soprattutto le conseguenze possibili per tutti. Perché sono anche i tempi della possibile revisione dell’ergastolo ostativo e dei crescenti (e legittimi) dubbi dei garantisti, degli interventi dell’Europa e della Consulta sul fine pena mai e sulla funzione rieducativa dell’espiazione, principi che - in nome dell’articolo 3 della Costituzione - devono valere per tutti, da Cospito a Lorenzo Bozano, dai fratelli Graviano a Leoluca Bagarella.

Ma di fronte a tutto questo si preferisce guardare prioritariamente al cosiddetto caso Donzelli, al dito e non alla luna, per usare le parole di un insospettabile sostenitore (per una volta) delle posizioni della maggioranza, Marco Travaglio, a Otto e mezzo di martedì sera.

Si guarda ad accuse che magari la sparano un po’ grossa, offensive e polemiche e non alla sostanza. Normale che il Pd si indigni, ma magari fa un po’ sorridere che giornali abbonati alle fughe di notizie (quelle vere, non su atti depositati e non segreti) si interroghino su dove il parlamentare di FdI, vicinissimo a Giorgia Meloni, abbia attinto le informazioni sugli incontri tra mafiosi e terroristi in carcere. E da lì scenari complottisti rilanciati in Parlamento da chi ha fatto del complottismo una bandiera e uno stile di vita.

Però la sostanza è diversa. La sostanza che colpisce la gente comune, noi siciliani in particolare, è che a Sassari, nei giorni dell’ormai smisurato sciopero della fame di Alfredo Cospito e della sua battaglia non contro il proprio 41 bis, ma contro il carcere duro in generale e per tutti, si siano incontrati lo stesso anarchico - detenuto con accuse pesantissime, non proprio un agnellino - un camorrista del clan dei Casalesi come Francesco Di Maio, un killer della 'ndrangheta come Francesco Presta e due mafiosi non proprio sconosciuti, dalle nostre parti, Pietro Rampulla e Pino Cammarata. Poi, che i parlamentari del Pd siano andati a fare visita a Cospito, dopo il suo incontro con i mafiosi, se si rispettano le regole della democrazia e delle prerogative che consentono queste attività, è lecito, oltre che quasi ininfluente.

Cammarata è un capomafia di Riesi, al centro esatto della Sicilia, comanda una cosca che prende il nome da lui: vecchia, inossidabile mafia, quella che può contare su reti di protezione, collusioni e - è triste dirlo, ma ogni giorno che passa appare sempre più così - su una connivenza della gente comune, diffusa ben oltre ogni immaginazione, come quella che ha consentito a Matteo Messina Denaro di latitare alla luce del sole per trent’anni. È, il boss di Castelvetrano, uno stragista, era l’ultimo libero e in circolazione: è, Pietro Rampulla, uno stragista della prima ora, ex ordinovista, ex neofascista, ex collaboratore dei Servizi segreti, inserito in quella galassia omicida indegna che destabilizzò per interposta persona e per conto terzi, probabilmente per stabilizzare il potere, negli anni ’70 e ’80. Di Rampulla, oggi settantenne, le tracce emergono dal cratere di Capaci, dove è vero che il mix melmoso delle infiltrazioni di apparati deviati dello Stato, spesso evocato, non è mai venuto fuori con la dovuta certezza processuale ma, se c’è stato, proprio Rampulla da Mistretta, poi vissuto a Catania, lo ha rappresentato, nella sua qualità di artificiere del gruppo di assassini di Giovanni Falcone. Quelli che su ordine di Totò Riina - singolare anche questo - per destabilizzare finirono con lo stabilizzare, giusto come gli stragisti neofascisti degli anni ’60 e ’70.

È dunque una situazione particolare, quella su cui ora indaga la Procura di Roma: conta di più da dove, da chi e come Donzelli abbia attinto le informazioni o contano piuttosto l’interesse, le pressioni, i consigli che arrivano a Cospito dagli altri boss detenuti? Chi evoca scenari galattici, trattative vere o presunte nei giorni della cattura di Messina Denaro, farebbe bene a ricordare gli sfoghi quasi esasperati di questi giorni, nei teatri televisivi e mediatici, provenienti da uno che, come Alfonso Sabella, all’inizio degli anni Duemila si giocò il posto ai vertici del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per essersi opposto – e avere sostanzialmente fermato – quelle strane ipotesi di dissociazione senza pentimento ventilate da gente come Salvatore Biondino, cosiddetto autista di Totò Riina, da Pietro Aglieri, Giuseppe Madonia, Salvatore Buscemi, Giuseppe Farinella, lo stesso Pippo Calò. Era convinto della bontà di questa possibile via d’uscita lo stesso procuratore nazionale antimafia del tempo, Piero Luigi Vigna. Forse anche «per colpa» di Sabella, che la mafia assassina e sanguinaria l’aveva conosciuta da vicino, vicinissimo, nei nostri interminabili Anni di piombo, non se ne fece nulla. E sarebbe ora che la politica, più che a Donzelli, guardasse ai veri pericoli di questi nostri tempi, di un passato ostinato, che non vuol passare mai.

 

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