Viddani li chiamavano, e non era un complimento. Perfino a Corleone la mafia aveva regole ancora ferme allo stereotipo del codice d’onore. Poi arrivarono loro: Liggio, Riina, Provenzano e Bagarella. Picciotti di un fazzoletto di terra che tra monti e colline di antico retaggio storico, cominciarono a fare e spadroneggiare. Fino a far fuori il medico capomafia Michele Navarra. Da allora Corleone e corleonesi hanno avuto lo stesso significato di mafia, Cosa nostra. Allargando il cerchio a tanti altri boss di Palermo e di mezza Sicilia che si sono rispecchiati in questa visione: noi ci pigliamo tutto, quando e come vogliamo. La ragnatela tessuta da Riina e Provenzano ha portato negli anni ad assoldare boss come il padre di Messina Denaro e poi il figlio. E a Catania uno come Nitto Santapaola. Coesi e feroci, hanno spazzato via quella che si chiamava la «borghesia mafiosa» degli Inzerillo o dei Bontade. Una scia di boss e picciotti sparpagliati in ogni dove, rete potente che non andava per gli spiccioli quando si trattava di affari, di «mettere le cose a posto», di ammazzare. Un delitto dopo un altro, una strage dopo l’altra. A viddani nel tempo si è aggiunto anche l’epitaffio tragediatori. Come racconta il collaboratore di giustizia Leonardo Messina: «I Corleonesi non hanno ucciso la gente, li hanno fatti uccidere mettendoli in una trappola. Hanno creato le condizioni per far uccidere le persone dai loro uomini, hanno creato le tragedie in tutte le famiglie». Servirebbe una enciclopedia per raccontare nefandezze di ogni genere. L’agire è stato questo, prima mascariare, indebolire l’avversario, farlo credere un traditore e poi farlo ammazzare dai suoi. Magari invitandolo ad una bella cena come nel caso di Rosario Riccobono. Matteo Messina Denaro faceva parte di quei picciotti che dovevano crescere in fretta, con i consigli del padre e quelli di Riina. Che tanto si sarebbe fidato di lui da affidargli tutto l’archivio che c’era in via Bernini e che la mancata perquisizione, finita in un processo, favorì. E fu proprio il picciotto di Castelvetrano ad eseguire pezzi di quella strategia stragista che portò alle bombe del '92 e del '93. Alla fine di un patto che aveva visto Vito Ciancimino essere il referente politico privilegiato di quel gruppo. Ma non l’unico, la corrente andreottiana rappresentata in Sicilia da Salvo Lima dovette adeguarsi ai cambiamenti imposti dai corleonesi. Con l’incontro, credibile o meno, tra Riina e Andreotti. Non sono solo le carte processuali dell’ordinanza sul delitto Lima o sul processo Andreotti a raccontare una evoluzione così inarrestabile. Collaboratori di giustizia e indagini hanno mostrato quanto i corleonesi si credevano potenti, al punto di sentirsi legittimati di scatenare una guerra contro lo Stato, di inviare papelli per far cessare le bombe, di sollecitare scarcerazioni in massa. Non una filosofia, ma quell’agire da viddani che prevedeva - come raccontò un pentito - di sradicare l’albero quando ti impedisce di passare. E lui, Matteo Messina Denaro, è cresciuto con questo modo di pensare, con l’agire di chi deve eliminare ogni ostacolo che ne impedisce il passaggio. Lui, lu siccu, fedele servirore d'u curtu. È bene ricordare che nel nel 1992 Messina Denaro fece parte di un gruppo di fuoco, composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani, inviato a Roma per compiere appostamenti nei confronti di Maurizio Costanzo e per uccidere Giovanni Falcone e il ministro Claudio Martelli, facendo uso di kalashnikov, fucili e revolver del suo arsenale privato. È bene ricordare che fu lui a fare fuori Vincenzo Milazzo, insofferente all'autorità di Riina. È bene ricordare che pochi giorni dopo, lu siccu strangolò barbaramente anche la compagna di Milazzo, Antonella Bonomo, che era incinta di tre mesi. Ogni ostacolo andava fatto fuori seguendo quel diktat dell’ala più feroce dei corleonesi. Che però, dopo le bombe e i morti dei primi anni Novanta, cominciarono a conoscere le leggi dello Stato. Preso Riina, preso Bagarella, presi i Brusca, preso Biondino, arrestato Santapaola, videro finire nelle patrie galere centinaia di criminali. La china discendente che portò Provenzano a governare senza fare troppo scruscio, ma non per questo lasciandosi alle spalle l’agire di eliminare chi intralciava. Altri morti, altri arresti, come quello dello stesso tratturi. Il dopo è stato proprio Matteo Messina Denaro, unico fedelissimo di quella genia mafiosa. In grado di governare dando l’apparenza di non essere più il capo e, per di più, il capo dei capi. Se lo sono chiesti anche i suoi adepti intercettati: «Ma dove finì?». Sparito, forse all’estero, forse ha lasciato il regno, forse... perfino la Dia scrisse che non sarebbe lui il capo della mafia siciliana. Lui che Provenzano chiama «Alessio» nei pizzini d’affari. Un filo mai reciso con quel gruppo che ha impresso un marchio indelebile nella storia siciliana. Ammazzando politici, magistrati, uomini delle forze dell’ordine, giornalisti o scomodi imprenditori. Matteo Messina Denaro è l’ultimo pezzo di quel cerchio che ora si è chiuso. Lui, tifoso del Palermo, tanto da andare a vedere una partita dei rosa allo stadio, dato per malato, moribondo o all’estero. Era a Palermo, protetto da una rete di persone che dimostra come magari forse non comandava più ma contava ancora parecchio. E che le sue tante mancate catture vanno inserite in un delicato capitolo ancora tutto da scrivere. Ma con il suo arresto finisce l'infame epopea dei corleonesi. La cronaca e poi la storia ci diranno chi c’è dopo di lui. Di certo non chiamatelo corleonese. Quella ormai - per fortuna - è solo storia.