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Prove tecniche di stabilità

Renato Schifani e Giorgia Meloni a una manifestazione a Catania (foto Ansa/Orietta Scardino)

«Giorgia Meloni a Roma e Renato Schifani in Sicilia non hanno solo vinto le elezioni. Avranno anche entrambi una solida maggioranza. E già questa è una buona notizia. La memoria va alle alchimie nazionali degli ultimi quattro anni (M5S-Lega prima, M5S-Pd poi, fino al tutti insieme con Draghi e senza FdI), tanto quanto ai cinque anni da separati in casa di Musumeci e la sua rachitica e virtuale maggioranza, con rumorosa implosione finale. Stavolta invece il quadro che emerge dalle urne delinea scenari di ipotetica stabilità. Che tolgono ogni alibi a chi sarà chiamato a governare il Paese e la Regione».

Una chiarezza negli equilibri che in questi tormentati tempi di troppe congiunture sfavorevoli è un valore di non poco conto. I sondaggi - rivelatisi affidabili come forse mai in passato - lo avevano in fondo previsto per le politiche. Ma appariva invece tutt’altro che scontato alla vigilia sull’asse Palazzo d’Orleans-Palazzo dei Normanni. Invece il centrodestra ha raggiunto l’obiettivo grazie soprattutto ai partiti di seconda fascia. Cosa che darà un peso politico importante a due vecchie volpi come Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo. Un compito non da poco, quindi, quello a cui sarà chiamato l’ex presidente del Senato: dovrà mettere in campo tutte le sue capacità di moderatore, morigeratore e normalizzatore per evitare che questo patrimonio assegnatogli dagli elettori possa disperdersi fra beghe interne e prove di forza fra alleati. Dopodichè serviranno responsabilità e buonsenso, non certo populismo e schiamazzo, per provare a ribaltare sulla non semplice azione di governo questo lusinghiero risultato. Che intanto depotenzia il ruolo di ago della bilancia che avrebbe potuto assumere Cateno De Luca. Capace di parlare alla pancia - spesso purtroppo vuota - dei siciliani più arrabbiati, ottenendo un risultato buono di per sè, se non fosse che le sbraitate ambizioni e le smodate previsioni della vigilia dicevano ben altro. Al punto da fargli ammettere ieri senza giri di parole: «Non ha funzionato, ho perso». Così come dice tantissimo la plateale distonia nei numeri dei Cinquestelle siciliani alle politiche e alle regionali: benissimo alle prime al punto da farne il partito più votato in Sicilia, non altrettanto alle regionali, col candidato finito quarto fra sei, dietro pure all’evanescente Chinnici dell’impalpabile Pd. Evidentemente Conte, nell’arringare le folle sbandierando copyright e difesa ossessiva del reddito di cittadinanza, si è dimenticato di ricordare ai suoi elettori che c’era anche un candidato presidente alla Regione.

Sintomo di poca attenzione alla realtà e alle esigenze del territorio? Può darsi, ma non sorprende nè sarebbe l’unico caso. Nella Sicilia dei paracadutati, mentre esultano la fidanzata del Cav, la figlia di Bettino (il figlio invece no) o la fulva animalista e conduttrice tv, pagano dazio nomi storici della politica locale. Uno per tutti, quello di Stefania Prestigiacomo, forzista e ministro berlusconiano della primissima ora, che dice addio a Montecitorio dopo 28 anni. Guasti e disastri di quello che alla formazione delle liste definimmo ritorno della Sicilia all'antico status di marginale e remoto granaio romano. E inevitabile effetto di un sistema a preferenze bloccate che disaffeziona sempre più l'elettore. La cui umorale volubilità non emerge solo dal dato sconfortante dell'affluenza, al minimo storico in Italia e ancora più giù dalle nostre parti. Al disamoramento si aggiunge infatti un evidente sradicamento dei partiti tradizionali, che non controllano ormai più le proprie antiche roccaforti. Ci si potrebbe dilungare sui mediocri risultati della vecchia sinistra in Toscana o della sbiadita Lega in Lombardia e in Veneto, fino ad atterrare qui in Sicilia con il bottino dello scompaginatore De Luca. Ma la prova più eclatante di questo ondivagare delle masse elettorali è data proprio dal risultato di Giorgia Meloni e del suo partito trionfatore. Cioè l'unico che in questi quattro anni di tribolata legislatura non è mai stato al governo del Paese, nonchè l'unico all’opposizione dell'esecutivo di unità nazionale di Draghi. Una scelta di trincea che ha portato Fratelli d'Italia dalla nicchia del 4% del 2018 all'exploit di oggi. A conferma, questa sì ormai una certezza acquisita, che in Italia la protesta ormai premia sempre più della proposta. La Meloni (e De Luca) oggi, Grillo ieri. I Cinquestelle hanno pagato pesante dazio al loro ingresso nell'establishment del potere politico e non a caso la remuntada è cominciata solo quando il dandy Conte ha tolto la pochette dal taschino e ha cominciato ad arringare gli adepti contro quel sistema che pure lo ha letteralmente inventato quattro anni fa. Un precedente di riferimento per FdI? Forse, anche se le differenze sostanziali non mancano: i grillini era neofiti arrabbiati, i meloniani hanno tutto sommato discreti background, al netto di qualche eccesso nostalgico da smussare qua e là. Intanto hanno convertito il centrodestra in destracentro e anche oltre, visto il non indimenticabile risultato della Lega (tempi bui in arrivo per Salvini) e di Forza Italia (che galleggia sul piglio inesauribile del suo highlander in doppiopetto). Toccherà alla prima premier donna della storia repubblicana spazzar via preconcetti e diffidenze, senza cedere alla facile tentazione del sovranismo a scapito di un atlantismo che invece oggi più che mai deve rimanere via maestra. Avrà una maggioranza chiara e ben definita, fortemente pendente proprio sul suo partito. Le condizioni ideali per governare, insomma. Purchè non diventino una pericolosa tentazione.

Del Pd infine dicono tutto le dimissioni annunciate da un mesto Letta e la sensazione di un decadimento irreversibile, a meno di un radicale cambio di rotta: la delazione più della proposta è metodo vecchio e consunto, qualcuno lo spieghi ai tristi epigoni di una sinistra che fu. Gli stessi che oggi gridano all'inquietudine per le sorti del Paese finito in mano alla destra. Senza aver saputo fare nulla per evitarlo: come se la colpa sia di chi vince e non di chi perde.

 

 

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