Dei sei magistrati che componevano il forse pletorico pool che si occupò del processo sulla Trattativa Stato-mafia, in Procura, a Palermo, ne è rimasto solo uno. Peraltro è l’unico dissenziente, nel senso che l’attuale procuratore aggiunto Paolo Guido non firmò né l’avviso di conclusione delle indagini né tanto meno la richiesta di rinvio a giudizio. Rimise poco prima la delega al procuratore Francesco Messineo, Guido, perché non condivise l’impostazione accusatoria, le macchinose tesi dell’accordo - sì, un’intesa, un do ut des - stipulato fra carabinieri, uomini delle Istituzioni e stragisti di Cosa nostra. Un patto scellerato per costringere lo Stato a piegarsi e a trattare, a fare concessioni in favore di boss e picciotti, in cambio della cessazione dell’attacco - a suon di bombe e omicidi - allo stesso Stato.
Genesi incerta, dunque, discutibile anche in un momento in cui chi discuteva veniva additato come aspirante insabbiatore o, nella migliore delle ipotesi, nemico della verità e della giustizia. L’avviso di conclusione delle indagini in effetti non lo firmò nemmeno il procuratore Messineo, che però cambiò idea poche settimane dopo, sottoscrivendo la richiesta di rinvio a giudizio. L’atto che - assieme al decreto che dispone il giudizio, in cui le quanto meno caotiche contestazioni furono interamente e insolitamente riscritte dal Gup Piergiorgio Morosini - diede il via a questo processo, su cui i dubbi sono stati sempre tantissimi. Ma solo un magistrato ebbe la forza per dire di no, in quel momento in cui andava per la maggiore Antonio Ingroia, il procuratore aggiunto che godeva di buona stampa, riesumava a favore di telecamera il bandito Giuliano e aveva tante idee per la testa, anche quella di fare il presidente del Consiglio. Impegni alternativi - chiamiamoli così - che alla lunga lo sottrassero al «suo» processo, lasciato per intero all’altro pm Nino Di Matteo, che lo aveva teorizzato e costruito assieme a lui e ai colleghi Francesco Del Bene e Lia Sava. Di Matteo - oggetto di un progetto di attentato mafioso, costretto a vivere scortato come un Capo di Stato - è oggi consigliere del Csm, dopo avere avuto un’esperienza come sostituto alla Dna, ufficio in cui lavora ancor oggi Del Bene, mentre Lia Sava è procuratore generale a Caltanissetta e Roberto Tartaglia - entrato dopo la partenza della Sava - è vicecapo del Dap, l’amministrazione penitenziaria. Andato via Ingroia, il suo posto fu preso da Vittorio Teresi, oggi in pensione come Messineo.
Insomma, la Procura - eccezion fatta per Paolo Guido e in parte e temporaneamente per lo stesso ex capo - dubbi non ne ha mai avuti o non ne ha avuti troppi. L’esito del processo di primo grado, coordinato dal presidente Alfredo Montalto, ex Gip dell’inchiesta Mannino e oggi presidente dei Gip-Gup - rafforzò nel pool la convinzione di avere visto giusto e che a sbagliare fossero stati gli altri. Eppure Calogero Mannino, l’uomo che quella trattativa l’avrebbe innescata per la paura di essere ucciso, era già stato assolto nel processo parallelo in abbreviato, in primo grado, quando - il 20 aprile 2018 - uscì la sentenza Montalto. E poi il ras democristiano fu assolto in appello e anche in Cassazione: incerta la prova, incerti i fatti storici attribuiti all’ex ministro, incerte le testimonianze a riscontro, inattendibile Massimo Ciancimino, ondivago Giovanni Brusca, apparso pronto ad assecondare qualsiasi interlocutore si fosse trovato davanti. Segnali pessimi, quelle assoluzioni in serie, per un processo dal reato confuso, forzato, che però aveva portato la corte d’assise al Quirinale e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a sollevare conflitto con la Procura, per evitare il rischio che le intercettazioni casuali dei suoi colloqui finissero sui giornali. Insomma, era difficile dire di no a quelle sirene. Ma ci fu chi lo fece: manca dunque la certezza che quel dibattimento non potesse non essere celebrato.
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