Desta sorpresa la sorpresa con cui molti hanno accolto la notizia dell’assoluzione dei carabinieri e del senatore Dell’Utri nel giudizio di appello del cosiddetto processo «Trattativa Stato-mafia». In realtà, gli addetti ai lavori e soprattutto gli studiosi di diritto davano per scontato tale esito, non per chissà quale dote di preveggenza ma semplicemente perché numerose altre sentenze avevano già messo in discussione le strutture portanti dell’inchiesta e poi della stessa decisione di primo grado che aveva condannato gli imputati. Basti pensare al troncone del medesimo processo che ha visto come protagonista l’ex ministro Calogero Mannino, assolto in sede di giudizio abbreviato, decisione poi confermata in appello con una copiosa e arguta motivazione suggellata, infine, dalla conferma in Cassazione. Ma anche i carabinieri in precedenza erano stati assolti definitivamente nel processo in cui si contestava loro di aver dolosamente evitato di perquisire il covo di Riina subito dopo il suo arresto e in quello ove li si accusava di non aver voluto catturare Provenzano benché informati sul suo nascondiglio. Insomma, il teorema che per circa dieci anni fa i pubblici ministeri hanno coltivato come verità è stato via via smentito da importanti pronunce, che hanno fornito interpretazioni diverse alla ricostruzione di quelle vicende o addirittura divelto l’accertamento fattuale. È ancora presto per spingersi a valutare la portata cognitiva della decisione assolutoria dei giudici di appello palermitani, occorre naturalmente aspettare le motivazioni. Dal dispositivo, però, appaiono chiare quantomeno un paio di cose: secondo i giudici, i carabinieri - nel prendere contatto con i capi mafiosi attraverso l’ex sindaco Ciancimino al fine di fermare le stragi - non hanno commesso alcun reato; sempre secondo i giudici, il senatore Dell’Utri non si adoperò in alcun modo per veicolare la minacce dei mafiosi verso (contro) il mondo politico-istituzionale. Delle accuse che avevano portato alla condanna in primo grado, quindi, rimane in piedi soltanto quella a carico dei mafiosi Bagarella e Cinà, sebbene derubricate a tentativo di minacce ai sensi dell’articolo 339 del codice penale Verrà il momento per discutere nelle sedi opportune come e perché il sistema giudiziario ha potuto consentire che si sprigionassero al suo interno questi cortocircuiti che nel complesso provocano scoramento e sfiducia nella pubblica opinione. Ora, invece, occorre chiudere la stagione del Circo Massimo, dei processi condotti in televisione, sui giornali, con le opposte tifoserie. Occorre chiudere per sempre la stagione dei pubblici ministeri che si candidano perfino alla presidenza del consiglio grazie alla notorietà personale alimentata dalle spettacolarizzazione delle proprie indagini, o che guadagnano posizioni di potere nello Stato per le stesse ragioni. Ora bisogna dare una risposta alle motivate accuse per la conduzione delle indagini lanciate da Fiammetta Borsellino e al suo dolore per i depistaggi e le strumentalizzazioni che hanno martoriato l’accertamento della verità per la strage che le strappò il padre. È un dovere che abbiamo anche verso tutti noi che da cittadini abbiamo vissuto sgomenti quegli anni. E forse l’unica risposta seria potrebbe essere la costituzione di una Commissione di indagine parlamentare che, supportata da adeguate competenze e saperi storico-politici, provi a ricostruire senza preconcetti quella stagione terribile, lasciando alle indagini sulle stragi condotte dalla Procura di Caltanissetta il compito di accertare le responsabilità penali individuali ancora non chiarite.