Scuola, quel solito rito dell’occupazione e dopo Natale… ecco la fine dei problemi
Vale ancora la pena portare argomenti per spiegare perché le occupazioni delle scuole, puntualmente riproposte anche quest’anno, siano, oltre che assolutamente inutili, anche un triste sintomo della decadenza culturale del mondo studentesco? Da anni cerco di invitare i ragazzi che le promuovono ad accettare almeno di interrogarsi sul significato di una contestazione che non è mai preceduta né seguita da una qualsiasi forma di consapevolezza e di impegno a livello politico. Da anni cerco di attirare la loro attenzione sulla scarsa credibilità della loro protesta e sul suo iscriversi, piuttosto che nella categoria delle rivoluzioni, in quella delle derive qualunquiste, di cui purtroppo la nostra società già abbonda di suo. Al di là di qualche stizzita reazione - peraltro priva di ogni tentativo di motivarla razionalmente - non mi è mai giunto alcun segnale che si sia avviato, nel mondo della scuola, un serio dibattito su queste tematiche. E così, anno dopo anno, il fenomeno si è ripetuto, con la regolarità della festa dei morti e delle vacanze natalizie, sempre nello stesso periodo, sempre con le stesse modalità, sempre all’insegna degli stessi slogan consunti. Se, malgrado tutto, scrivo questo articolo è perché sono fermamente convinto che la ragione non può mai essere del tutto messa a tacere. Scriveva Eraclito cinquecento anni prima di Cristo, che le persone si dividono in «desti» e «dormienti» - i primi capaci di percepire la realtà e il suo significato, i secondi immersi nel loro piccolo mondo illusorio e autoreferenziale - e che la maggioranza appartiene al secondo gruppo. Ma anche il filosofo greco era convinto che l’essere umano sia capace di svegliarsi e di aprire gli occhi su quello che sta effettivamente succedendo. Così, riassumo brevemente alcuni dei motivi della mia critica alle occupazioni studentesche, anche se lo faccio con lo stesso stato d’animo del naufrago che affida il suo messaggio a una bottiglia. Già la stanca ripetitività e l’irrilevanza del fenomeno, che lo fa ormai assomigliare a un inutile rito, dovrebbe essere un chiaro monito per tutte le persone che amano pensare. Da anni nello stesso periodo dell’anno (causalmente, quello che segue i primi mesi di scuola e precede le vacanze natalizie) gli studenti italiani si rendono conto, improvvisamente, che il Paese va a rotoli, che la scuola fa schifo, che il loro istituto fa più schifo degli altri. Da anni, allarmati ed esasperati, reagiscono ripetendo sempre le stesse frasi fatte (né potrebbero dirne altre, perché non hanno un minimo di preparazione politica) per giustificare l’esito già fin dall’inizio prevedibile: la scuola in mano agli studenti (spesso con danni materiali che poi ripagherà provvidenzialmente tutta la comunità scolastica), le lezioni interrotte - ma, tranquilli, dopo Natale tutto tornerà come prima! -, la creazione di fantomatici gruppi di studio (purtroppo normalmente quasi deserti) per esaminare «a fondo» i problemi. Da anni non c’è, prima di arrivare a questo intenso momento di tensione e di azione, un impegno della scuola (e tanto meno degli studenti) per acquisire quella cultura e quella coscienza politica che oggi mancano totalmente (e non solo ai ragazzi!). Da anni non c’è, dopo le occupazioni, alcun serio proseguimento del dibattito (ma in realtà non era mai cominciato), anzi sono gli stessi studenti a sollecitare, dopo le vacanze, una piena concentrazione sui programmi e sulle interrogazioni per arrivare, ai primi di febbraio, alle pagelle del primo quadrimestre. Davanti a questi fatti - che nessuno può negare! -, le accese perorazioni dei leader improvvisati, mentre spiegano che la protesta, quest’anno, costituisce una svolta epocale, possono far piangere o ridere, a scelta, ma non essere prese sul serio. Colpa dei ragazzi, dunque? Certo, non sono più bambini e dovrebbero essere un po’ più capaci di non farsi manipolare dalle mode. Ma a questo qualcuno li ha abituati? Fatte salve le debite eccezioni, spesso la scuola insegna (o tenta di insegnare) tutto, fuorché a pensare. Meno che mai a pensare in termini di coscienza e di responsabilità politica. Anzi, il motto è che a scuola «non si fa politica». Manca - e non solo agli studenti - la consapevolezza che essa dovrebbe più che inseguire i programmi, o meglio, attraverso di essi, aiutare le nuove generazioni a riappropriarsi creativamente del passato (quante «storie» si studiano!) per leggere con intelligenza il presente e progettare un futuro diverso, a livello sia personale che comunitario (la politica!). E così - nell’assenza di una seria informazione (quanti ragazzi leggono i quotidiani, al di là della pagina sportiva?) e di un costante confronto in classe, che dovrebbero svolgersi lungo tutto l’anno - non resta che questa parentesi illusoria (un equivalente del carnevale, in cui ogni scherzo vale), inevitabilmente seguita dal ritorno alla «normalità», in cui nessuno si sognerà più di parlare dei mali dell’Italia e della scuola. Fino alla prossima occupazione, l’anno venturo.