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Alterano la scadenza degli hot dog in un supermercato a Palermo: due condannati

PALERMO. Il timore che la direttrice del supermercato lo potesse licenziare se si rifiutava di obbedire all’ordine di alterare la scadenza degli hot dog in vendita al banco surgelati, non è una valida ragione per evitare la condanna per frode in commercio. Lo sottolinea la Cassazione che ha confermato le condanne per la responsabile di un punto vendita 'Eurospin' di Palermo, la signora Anna T., e per il dipendente, Francesco Paolo C., che aveva eseguito l’ordine della donna di riportare indietro le lancette della data di scadenza di alcune buste di hot dog. Le pene non sono note.

In base a quanto ricostruito dal verdetto, «erano stati rinvenuti nei banchi frigo circa una decina di confezioni di hot dog, pronte per la vendita, dove era stata contraffatta la data di scadenza, in origine anteriore di venti giorni, e nel magazzino furono rinvenuti i materiali utilizzati per cancellare l'originaria scadenza», inoltre «diversi dipendenti avevano confermato che la manager aveva dato anche in altre occasioni e a soggetti diversi dal coimputato, disposizioni di contraffare le date, soprattutto se si trattava di prodotti in giacenza in magazzino», ma in molti si erano rifiutati.
Per questo, la Corte di Appello di Palermo aveva escluso che ricorresse la scriminante di aver agito per il timore di perdere il posto nella condotta consenziente del commesso perché anche lui, come altri suoi colleghi, avrebbe potuto dire 'no' e denunciare la direttiva «illecita» ricevuta dalla superiore.

Senza successo, il commesso ha inoltre provato a dire che gli ordini non si possono mettere in discussione e che l’art.51 del codice penale prevede la non punibilità per i cittadini che commettono reati nell’adempimento di un ordine.

In proposito, la Cassazione - sentenza 3394 - ha replicato che gli ordini ai quali non si può venire meno sono solo quelli emanati «da una pubblica autorità», il che significa che «i rapporti di subordinazione presi in considerazione sono esclusivamente quelli che sono previsti dal diritto pubblico».

Invece, «nei rapporti di lavoro privato, tra i quali sono compresi quelli che intercorrono tra i privati datori di lavoro e i loro dipendenti, non è applicabile la causa di giustificazione» - prevista dall’art.51 cp - «perché manca un potere di supremazia, inteso in senso pubblicistico, del superiore riconosciuto dalla legge».

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