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I manga giapponesi in salsa siciliana, e Santa Rosalia diventa un’icona... tatuata - Foto

PALERMO. Ha gli occhi grandi come pozze d’acqua, un piglio da generalessa, un’anima dolce e tanti tatuaggi.

È una cosplayer ma è anche Santa Rosalia. Meglio, la santuzza di Max Ferrigno che l’ha calata in una periferia rotonda, dove «Rosù» – la chiamiamo così, con affetto – vive ancora nella villa di papà che protegge con affetto la sua teenager. Presto al sua vita cambierà, ma Ferrigno la disegna mentre è ancora una ragazzina senza problemi. Dalla Santa Rosalia alle altre opere, il taglio è breve e il passo deciso: ed è una scoperta. Un torinese di nascita che sceglie Palermo per passione, è già una novità. Se poi ci si aggiunge che Max Ferrigno declina gli inossidabili Manga nipponici su scala sicilian style, allora siamo proprio una lunghezza avanti. La personale di Ferrigno «New Pop in the Castle», curata da Igor Zanti, inaugura la nuova galleria del Castello Lanza Branciforte, a Trabia; dove hanno anche trovato spazio le «Luminarie» affidate e realizzate dall’amico Domenico Pellegrino.

E ritorniamo alla Santuzza che vive nella città più pop d’Italia:

«È a tutti gli effetti una cos player: la mia Rosalia è una ragazza di Palermo come tante, alternativa, con i tatuaggi e i piercing - spiega Max Ferrigno -. La sua vita è alternative-fashion ma è appassionata della Santuzza, che è la sua eroina. Quindi i suoi tatuaggi sono un richiamo all'icona, ha un cerchietto di rose «magiche», il primo teschio che trova è quello di una bottiglia glamour di vodka che beve per avere visioni mistiche».

Non piacerà al cardinale quest’ultima parte, ma è un fatto che la Santa Rosalia di Ferrigno è molto vicina a noi: una ragazzina appassionata dell'eroina shjo Creamy che decide di costruirsi una bacchetta magica simile alla sua, di indossare un cerchietto di rose per i capelli, il suo medaglione magico e di cucirsi dei vestiti tali e quali alla sua icona.

«È stata un’opera nata in corso di allestimento - spiega Giuseppe Forello - presidente della Fondazione Jobs e patron della nuova galleria - . È una testimonianza di devozione alla città che esce dai canoni e provoca discussione. Una Santa Rosalia immaginifica in chiave pop surrealism mi ha davvero incuriosito. Io la trovo fantastica, allusiva e universale».

Ma è tutta la mostra ad incuriosire: il debito nei confronti della cultura nipponica è ovviamente netto e non nascosto. Ad iniziare dai cosplayer – è il fenomeno del Giappone anni ’90 quando i ragazzini iniziarono a vestirsi come i personaggi dei loro fumetti preferiti - per arrivare ai manga, ovvero il nuovo pop, un’etichetta che addosso a Ferrigno sta a pennello, soprattutto scorrendo queste opere raccolte da collezioni private e gallerie di tutto il mondo. Si tratta di impressioni: a prima vista, c’è dentro la cultura Otaku e la passione, quasi ossessiva, per i manga e le anime sulle orme di Takashi Murakami, l’artista giapponese, che da Tokio si è trasferito a New York, attraverso le sue opere è riuscito a compiere una rivoluzione rendendo alta questa matrice culturale come una «reazione» alle rigidità della cultura, così detta, elitaria. Ma Max Ferrigno – che pure dichiara la sua filiazione da Murakami – va oltre e si cala a capofitto nell’ambiente in cui ha scelto di vivere. Ovvero la Sicilia. Ovvero Palermo.

Ferrigno ha una sua storia: inizia come decoratore a Torino e va avanti fino al 2005 quando prende a divorare fumetti manga, che avvicina a quel pop surrealism anni ’70 che correva poco elegante sotto i pantaloni a zampa e le idiosincrasie post Vietnam che animavano i figli dei fiori, i punk e le anime libertarie. E qui entra in gioco la nuova terra in cui l’artista ha scelto di vivere qualche mese addietro: ecco le mattonelle siciliane, i ghirigori di Caltagirone, le ceramiche dai colori violenti che entrano di forza nelle opere e si sistemano comodamente da sfondo alle figurine tutte occhi e bocca di Ferrigno. È una lotta impari, perché i personaggi vincono, ma la Sicilia corre sotto sotto, come un sommergibile in apnea.

«I personaggi dei cartoni animati ed i giochi dei bambini della generazione di Max Ferrigno, diventano “attori attivi” in un tripudio di colori accesi, intensi e dissonanti e assumono posture ironiche e dissacranti che emergono con una texture acida dal retrogusto punk rock - scrive il curatore Igor Zanti -; animali e vegetali antropomorfizzati, ragazze sexy e diaboliche, pagliacci tristi e demoniaci, mettono in scena uno spettacolo di un’umanità ambigua, con un sottile messaggio che pervade tutto».

E che non è facilmente districabile, visto che l’immagine fa a pugni con la sensazione, la figura non cede passo all’insieme, il disegno è netto e non vuole assolutamente dare spazio al corpo.

«New Pop in The Castle» – aperta fino al 30 settembre, visitabile dal martedì al sabato dalle 17 alle 21 - vive anche attraverso un percorso di allestimenti digitali che accompagnano lo spettatore alla scoperta di Ferrigno.

«La mostra di Ferrigno è solo la prima tappa per rendere il castello di Branciforte di Trabia un luogo straordinario e vitale in cui vivere esperienze; l’intenzione è che il Castello diventi un polo d’attrazione d’eccellenza per l’arte, la cultura; un vero e proprio simbolo dell’intraprendenza imprenditoriale di una Sicilia che ha gli occhi aperti sul mondo», interviene Forello.

A chiudere questa mostra un po’ particolare, c’è di sicuro la sede affascinante alle porte di Palermo: stiamo parlando del castello Lanza di Trabia, regno di quel Cagliostro di oggi che è stato Raimondo Lanza, straordinario gattopardo rivisitato, playboy, high society, artista geniali e manager sopra le righe, lo stesso a cui Mimmo Modugno dedicò «Vecchio frac».

Finito male, suicida, in un albergo di Roma. Il castello era il suo buen retiro, ma è molto antico, addirittura ne parla Edrisi nel 1153, descrivendo una rocca chiamata «della Trabia», ovvero una magione. Prima, mulino della regia curia, poi proprietà dei Tricotta che lo lasciarono in testamento al convento del Carmine di Palermo che a sua volta, nel 1441, lo cede a Leonardo Bartolomeo, protonotaro del regno. La nipote ed erede di Bartolomeo, Eloisia, sposa Blasco Lanza che accorpa il castello ad altre proprietà, sotto lo scudo di mano del Gagini. Durante la rivolta contro Ugone Moncada, i ribelli assalirono il castello di Trabia e lo diedero alle fiamme. L’incendio si verificò nel 1517.

Da qui in avanti, si narra poi che qui abbia trovato rifugio don Cesare Lanza, dopo l’uccisione della figlia, la famosa baronessa di Carini. Di casata in casata, il castello giunge al principe di Trabia, Pietro Lanza, che nel 1784 lo trasformò in uno stabilimento, nel quale venivano realizzati diversi prodotti: tonno, panno, biscotti, olio di «nozzolo» e colla. Nel 1835, invece, un altro Pietro Lanza vi ospitò una «società filodrammatica».

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