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Lotta alla mafia, trent'anni fa la svolta con il maxiprocesso

Il processo si aprì il 10 febbraio 1986. La sentenza fu emessa il 16 dicembre 1987 dopo 349 udienze

Pippo Calò alla sbarra, uno dei principali imputati al maxi

PALERMO. Il maxiprocesso rappresentò trent' anni fa una svolta nella linea giudiziaria contro la mafia. Per la prima volta trovò larga applicazione la nuova norma sull' associazione mafiosa. Era stata introdotta nel codice penale (art. 416 bis) solo dopo l'uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che peraltro aveva posto le basi del procedimento firmando il nucleo originario dell'inchiesta: il "rapporto sui 162".

In tre anni il numero degli imputati era arrivato a oltre 700 ("Abbate Giovanni + 706") ma, a istruttoria conclusa, ne furono portati in giudizio 475. Il processo si aprì il 10 febbraio 1986. La sentenza fu emessa il 16 dicembre 1987 dopo 349 udienze. La corte - presidente Alfonso Giordano, giudice a latere Pietro Grasso - emise la sentenza dopo 36 giorni di camera di consiglio: 19 ergastoli, condanne per 2665 anni di reclusione, multe per 11 miliardi e mezzo di lire, 114 assoluzioni.

Tra i condannati all'ergastolo tutti gli uomini della "cupola": Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò e altri. Tra gli assolti Luciano Liggio: secondo la corte, non avrebbe potuto dal carcere esercitare un ruolo nella struttura di comando di Cosa nostra. Con parziali riforme le condanne vennero confermate in appello. Con la sentenza del 30 gennaio 1992 la Cassazione da un lato confermò tutte le condanne maggiori e dall'altro annullò varie assoluzioni ordinando un nuovo processo. Dopo la sentenza di primo grado, che giunse dopo una lunga "tregua", la mafia tentò di condizionare i giudizi della corte d'assise d'appello e della Cassazione. Nel 1988 uccise il giudice Antonino Saetta, destinato a presiedere l'appello, e nel 1992 eliminò Antonino Scopelliti che in Cassazione avrebbe dovuto rappresentare l'accusa. Erano le prove generali delle stragi del 1992.

 

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