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Arrosto panato, sartù di riso, cannolo: in un ricettario a Palermo le origini "reali" del nostro mangiare - Foto

PALERMO. Una forchettata da re, per tenere a bada l'ingordigia e mettere a tavola il sovrano Ferdinando I, che amava trangugiare i suoi «vermicelli» direttamente dal coppo di carta. E il cannolo siciliano? Un dessert - il primo da passeggio - di pura lussuria, brevettato dalle concubine dell'harem dell'antica Caltanissetta. Mangiare è un po' raccontare.

E cucinare è evasione, invenzione, scoperta e insieme memoria.

Ne ha raccolte circa 80, Lietta Valvo Grimaldi - insegnante, storica e scrittrice palermitana, appassionata divulgatrice per giovanissimi - autrice per «Pietro Vittorietti editore» del «Favoloso ricettario del Regno delle Due Sicilie per ragazzi molto golosi».

Nel volume, che verrà presentato al pubblico venerdì, alle 18, a Palazzo Forcella De Seta, con la partecipazione dell'autrice, di Gaetano Basile e di Bernardo Tortorici di Raffadali, si cuoce a fuoco vivace un compendio di ricette e aneddoti leggeri, strampalati, saporiti, con il filo conduttore dei disegni di Bianca Martorana Tusa. Avvincente come un romanzo ma sostenuto da un'accurata ricerca, a partire dai libri di Artusi e Gleijeses.

«Volevo dare ai ragazzi - spiega Valvo - un modo divertente di avvicinarsi alla storia del Regno delle Due Sicilie, dall'epoca classica fino al primo '900, con la nascita del Manifesto della cucina futurista di Filippo Tommaso Marinetti, che vide la luce proprio a Napoli».

Bando alla pastasciutta - era la somma provocazione - e largo al «Carneplastico». Fortuna che all'ombra del Vesuvio resisteva il culto gaudente del carboidrato, come nel sartù di riso. «Ha origini francesi - racconta l'autrice - come gran parte della cucina siciliana e partenopea nel 700 e 800, quando arrivavano da Oltralpe i ”monsù“, termine che deriva dalla pronuncia storpiata di monsieur. Ai napoletani il riso non piaceva, lo consideravano un cibo per malati, lo chiamavano sciaquapanza. E i monsù a servizio della corte e dei nobili, per renderlo più appetibile lo condivano con piselli, polpettine di carne, formaggio».

Gli chef blasonati sopravvissero fino al secolo scorso. Ancora i Florio «allevavano» nelle loro cucine il talento di Francesco Paolo Cascino. In casa Vulvo Grimaldi, invece, a governare pignate e dispensa ci pensava Peppino, che con maestria tesseva le solide, affettuose trame di un lessico familiare fatto di arrosti, salse, biscotti. «A Enna, dove sono cresciuta, facevamo una torta di ricotta morbida, buonissima, con l'olio d'oliva invece del burro. Una specie di antesignana della cheese cake».

E ancora gli struffoli di nonno Nicola, «che era nato a Napoli, aveva vissuto per mezzo secolo a Palermo ma sempre con grande nostalgia per la sua città».

A ogni ricetta, una storia. La cuccìa, per esempio, che rievoca il rapimento di Kore e la salomonica mediazione di Zeus, o le «Olivette di Sant'Agata», «frutto» involontario ma dolcissimo del supplizio della virtuosa fanciulla, nella Catania del III secolo d.C.. «Pochi sanno che l'arrosto panato nacque nel 1492, durante la cacciata degli ebrei. Per salutarli i palermitani si misero ad arrostire grandi quantità di carne in strada, ma visto che non bastava, aggiunsero la mollica». Dai ricchi banchetti del Rinascimento fino alle buone pratiche che hanno colonizzato le menti e i consumi della società del benessere. «Nel libro ci sono anche delle schede per verificare quanto i ragazzi sanno di educazione alimentare». In programma poi, due laboratori ”junior” per imparare ad apparecchiare una tavola borbonica : il 23, alle 17, alla Città del Sole, e il 24, alle 11, alla Feltrinelli. «Ma la cucina di oggi - chiosa il giornalista e storico Gaetano Basile - è terribilmente banale. Mangiamo male perché siamo ignoranti. Pensiamo ad esempio ad un salsa semplicissima, l'aglio soffritto nell'olio. La inventarono gli ebrei mille anni fa, e i monsù francesi la adottarono per assesonner, insaporire, i vegetali. Da qui le nostre incomparabili verdure assassunate».

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