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Di Matteo: “Non solo picciotti, i boss fanno affari tenendo contatti con altri poteri”

Dottor Di Matteo, che cosa è la mafia oggi?
«Se dovessi spiegarlo a chi proprio non ne sa niente, cercherei di fargli capire che non è un' organizzazione criminale composta esclusivamente da delinquenti dediti a estorsioni e traffici di stupefacenti e, quando necessario, a delitti di sangue. Cosa nostra è composta anche da teste pensanti che tendono afar sporcare le mani alla manovalanza e si dedicano, più proficuamente, al reimpiego del denaro illecito, tenendo icontatti col potere politico, economico e, quando è possibile, istituzionale».
Nino Di Matteo, 54 anni, è il pm del processo sulla trattativa Stato -mafia, ma non solo. Ha iniziato la carriera in una Direzione distrettuale antimafia a Caltanissetta, ha seguito i processi sulla strage di via D' Amelio e, arrivato a Palermo, ha coordinato inchieste su mafia e politica, per dedicarsi poi, al fianco di Antonio Ingroia, al processo Mori e al dibattimento sui presunti accordi tra pezzi delle istituzioni e pezzi di Cosa nostra, nel periodo delle stragi del '92-'93. Oggetto della rabbia di Totò Riina in persona, è considerato un magistrato ad altissimo rischio e si sposta protetto come un Capo di Stato, con un dispositivo bomb jammer. Di recente è uscito per Rizzoli il suo secondo saggio, «Collusi», scritto con il giornalista Salvo Palazzolo.

È ancora attuale, il rapporto tra mafia e rappresentanti istituzionali dello Stato?
«Cosa nostra ha sempre provato ad entrare in rapporto con uomini delle forze di polizia ed esponenti della magistratura. L' obiettivo è intrattenere un rapporto di sostanziale connivenza o non belligeranza. Numerosi processi hanno però dimostrato, con le condanne degli imputati, che ci sono gli anticorpi necessari ad eliminare le infezioni».
Dopo il tanto sangue versato dalle vittime "istituzionali", in una terra che pure ingoia tutto, oggi la mafia rinuncia, in parte perché costretta dalla reazione e dall' azione di prevenzione dello Stato, agli omicidi eccellenti.
«Con una rilettura più fredda e distaccata, possiamo oggi scorgere un comune denominatore tra i delitti politico -strategici di un tempo: uomini come Pier santi Mattarella, Rocco Chinnici e tutti gli altri costituivano un' anomalia nel sistema politico-istituzio nale del tempo. Il presidente della Regione intervenne sulla gestione degli appalti pubblici. Il consigliere istruttore rappresentò la discontinuità, in un sistema giudiziario che aveva sottovalutato il problema mafia o era in qualche modo connivente, o comunque manifestava un istintivo fastidio nei confronti di quei pochi giudici che avevano cominciato la lotta».
Chinnici inventò anche il pool antimafia, il lavoro in gruppo. Ha aperto una strada.
«Sì, oggi si lavora in gruppo e i risultati sono molto positivi. Proprio per questo rimango perplesso sulle normative, partite con la legge Mastella e sviluppate in gran parte con regolamenti del Csm, che hanno imposto limiti tassativi, un massimo di dieci anni, alla permanenza nelle Dda».
La ragione è quella di evitare le cosiddette "incrostazioni" dell' antimafia. E in alcuni casi, di recente, l' antimafia ha manifestato di avere qualche problema.
«Se si guarda all' interno della magistratura, la storia recente oggettivamente dimostra che, come è giusto che sia, l' antimafia non è terreno fertile per facili carriere. Sulla strumentalizzazione dell' antimafia, devo dire che non è proprio un fatto recente. Ricordo le indagini condotte a Villabate nella prima metà del decennio scorso. E lo stesso Bernardo Provenzano aveva dato il proprio assenso a iniziative di mera facciata».
Però non è tutto da buttare.
«Assolutamente no. Vanno preservati dalla delegittimazione quei comitati e quelle associazioni che fanno partire l' antimafia dai cittadini, dalla sensibilizzazione delle coscienze. Non possiamo illuderci che la Il pubblico ministero Nino Di Matteo con la scorta lotta a Cosa nostra sia prerogativa esclusiva dell' apparato repressivo: occorre piuttosto propugnare la rivoluzione culturale, che può sconfiggere la mentalità mafiosa, fondata su appartenenze, lobby, massonerie, sui favori e sulle raccomandazioni».

Dicono che magistrati come Antonio Ingroia, che con lei ha lavorato, abbiano nuociuto all' immagine della magistratura. Lei che ne pensa?
«Continuo a ritenere Ingroia uno dei magistrati più preparati, autonomi, indipendenti e professionali che io abbia mai conosciuto. A mio parere non meritava di essere trattato come lo è stato dopo la sua uscita dalla magistratura, anche dai colleghi che magari prima lo aveva ossequiato. In troppi, dopo la sua sconfitta elettorale, lo hanno trattato come se fosse il peggior esempio di magistrato. Detto ciò, io la sua scelta di fare politica non l' ho condivisa. Ma la rispetto e la capisco anche da un punto di vista umano, per il carico di eccessiva tensione che si era concentrato su di lui».
Carico di tensione che, uscito di scena Ingroia, si è riversato su di lei: sovraesposto, minacciato, ritenuto ad altissimo rischio.
«Purtroppo la delicatezza delle materie che mi sono trovato a trattare ha comportato un' oggettiva sovraesposizione. Devo dire che questa situazione, in certi momenti, è peggiorata perché non tutte le istituzioni hanno mostrato non dico condivisione ma rispetto del nostro lavoro. Siamo stati anche accusati di avere agito in funzione ricattatoria nei confronti del Capo dello Stato».
Per la famosa storia delle intercettazioni tra Giorgio Napolitano e Nicola Mancino.
«Esattamente. E a fronte di addebiti così oggettivamente pesanti non siamo stati adeguatamente difesi dai nostri organismi rappresentativi, come l' Anm, odi autogoverno, come il Csm. Ecco, l' oggettiva sovraesposizione è dipesa anche dal fatto che in certi frangenti siamo stati abbandonati al nostro destino: le accuse di avere ricattato il presidente della Repubblica o si dimostrano - e allora le conseguenze per noi sarebbero dovute essere le più gravi - o sono considerazioni offensive e pericolose. Non sarem mo dovuti rimanere da soli».
Le minacce nei suoi confronti sono arrivate dopo i silenzi istituzionali nel momento delle polemiche. Poi però siete stati difesi.
«Noi pm che ci siamo occupati del processo trattativa non veniamo percepiti come pezzi della magistratura ma come schegge impazzite, guardate con diffidenza dalle istituzioni, da Anm e Csm. Siamo stati accusati di avere fatto queste indagini per favorire una parte politica: ma se le critiche ci sono arrivate da tutte le parti politiche!».
Nel libro "Collusi" lei scrive che i politici vicini alla mafia si sovraespongono e rischiano. Non solo di essere arrestati e condannati.
«Finché la mafia esisterà, cercherà sempre il rapporto con la politica. -E cambiata la strategia: il rapporto si mantiene attraverso intermediari insospettabili e incensurati, sotto una veste di liceità apparente. Ma il politico che fa promesse dovrà poi adempierle, in qualche modo. Il rischio giudiziario è tutto sommato blando: secondo le nuove norme, lo scambio politico -elettorale, se non si concretizza nel condizionamento del voto col metodo mafioso, non ha esito penale. -E su altri piani che si rischia».
Si rischia cioè una reazione violenta come quella che investì gli ex amici della mafia, nel '92.
«Cosa nostra è stata l' unica organizzazione criminale capace di condizionare la vita politica nazionale. E la sua pericolosità e l' attualità del rapporto non sono affatto svaniti: i due presidenti della Regione che hanno preceduto l' attuale sono uno in carcere per scontare la pena, l' altro condannato in primo grado per fatti legati a vicende di mafia».

Voi cercate la verità sulle stragi. Ci si arriverà mai?
«Saranno Corti e tribunali, a Palermo e Caltanissetta, a dirlo. Io dico solo che, vedendo ciò che è consacrato in sentenze già emesse, lo Stato deve trovare la forza di non considerare chiusi quei capitoli e deve accertare se, come emerge da tanti processi, accanto ai macellai di Cosa nostra, agirono anche altri soggetti, esterni alla mafia».

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