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Basile: «Dai raid alleati a quelli dei vandali, Villa Giulia è come una ferita aperta»

Durante la guerra i tedeschi nascondevano sotto gli alberi di Villa Giulia, carri armati e camion di munizioni: ma qualcuno aveva avvertito gli Alleati che bombardavano a ripetizione l’intero quartiere. Se su piazza Kalsa si scoprono ancora le macerie, a Villa Giulia la natura ha avuto la meglio: a circa sette, otto metri d’altezza si notano ancora le schegge dei proiettili infilzate nei tronchi delle palme. Ricordi. Che Gaetano Basile mette in fila uno dietro l’altro. Lo storico e intimo conoscitore di aneddoti, anfratti e curiosità della città, a Villa Giulia è proprio cresciuto. «Io sono nato in corso dei Mille, di fatto fuori dalle mura della città. Allora la gente era divisa in palermitani e rigniculi (nati nel regno), la famiglia di mia madre si oppose per anni al matrimonio della mamma con un rigniculo che abitava fuori Porta Termini. Ma questa è un’altra storia: tutti noi fratelli andavamo a Villa Giulia, da bambini con i genitori e la tata, da adolescenti da soli, da ragazzi con le prime innamorate cercavamo le panchine nascoste dai cespugli e ci scappava persino un bacio. Villa Giulia era un posto bellissimo, pieno di odori e colori».

Oggi è stata depredata e derubata tanto da esserne necessario il sequestro. Ieri tanti turisti e molti palermitani la guardavano sconsolati al di qua dei cancelli.

«Quel cancello venne soltanto in un secondo tempo - ricorda Gaetano Basile - quando fu costruita a fine Settecento, c’era un muro alto due metri. Soltanto nell’Ottocento venne sostituito da una cancellata. Che porta ancora ben visibile la “minchiata” di un mastro muratore mezzo analfabeta che, non sapendo scrivere bene, confuse la “u” e la “v” nella scritta in ferro sul lato mare, che era l’entrata principale».

Durante la guerra la Villa nascose i carri armati tedeschi?

«Sì, nessuno si spiegava perché gli alleati continuavano a bombardare a ridosso delle mura, poi si capì che i tedeschi usavano la Villa per nascondere i mezzi imponenti: allora era piena di alberi, rigogliosissima. Ad ogni bombardamento noi correvamo nel sottoscala: una grande stupidaggine, per fortuna il mio palazzo non fu mai centrato sennò addio a una decina di famiglie sprovvedute. Comunque, finito il raid, noi ragazzi correvamo fuori e spesso finivamo a Villa Giulia: controllavamo gli alberi e con un temperino raschiavamo le schegge dalle palme ferite. Alcune sono rimaste, e le palme nel frattempo sono cresciute: nel ’44 erano all’altezza della mia testa, oggi sono di sette, otto metri. Hanno resistito più di noi, con pezzi di ferro incastrati nel corpo. Ogni tanto vado a Villa Giulia, le guardo e sorrido».

E poi i giochi, la bicicletta, lo zoo...

«Entrare a Villa Giulia voleva dire essere liberi: dentro potevi fare quello che volevi, correre, saltare, andare in bicicletta, anzi io ero un bambino ricco, avevo il monopattino vero, non la pattina con i cuscinetti a pallini; i grandi ti guardavano per un po’, poi basta. C’era una fontanella in ghisa della fonderia Oretea, dove ci portavano a bere l’acqua, non erano ancora i tempi di Coca Cola e Sprite. La fontanella era sempre lì, dietro l’ingresso principale dal mare; ed ogni tanto vado a controllare se c’è ancora: fino a due mesi fa... c’era».

Non erano ancora i tempi del leone Ciccio che arrivò a Villa Giulia nei primi anni Sessanta, dono del cavaliere del lavoro Furlanis.

«Non c’era Ciccio, ma un piccolo zoo era già allestito: quando ero piccolo mi affascinava, mi incantava u’ scimmiune. Poi scoppiò la guerra e continuammo ad andare a Villa Giulia e da lì guardavamo il mare che era a pochi passi; non c’era ancora lo spazio della doppia carreggiata del Foro Italico che doveva essere ancora costruita. Il complesso di Padre Messina era l’ultimo avamposto della città, poi iniziava la borgata: in quella chiesa si sposarono i miei genitori».

L’Orto botanico era di fatto attaccato a Villa Giulia?

«Io divido equamente il mio amore tra Villa Giulia e Orto Botanico: la prima è mia madre, mio padre, i miei nonni, la mia prima calia e simenza. L’Orto è come se mi appartenesse perché ci lavorava don Vincenzo Basile, capo giardiniere nei primi dell’800. Lo storico professore Tineo lo apprezzava molto anche se Basile era uno dei tanti ortolani di Brancaccio. Il giardiniere riceveva ogni giorno la visita del figlio, GiovanBattista e un giorno chiese al professor Tineo di trovare un posticino al ragazzo, magari come aiuto oppure operaio. Ma Tineo aveva la vista lunga e capì che il ragazzo aveva stoffa: di fatto quasi lo adottò, pagò i suoi studi fino all’università e, dopo la laurea in ingegneria (un anno prima del previsto), lo iscrisse ad un corso di architettura a San Luca a Roma. GiovanBattista Basile era il fratello del mio trisnonno, suo figlio Ernesto e mio nonno si chiamavano cugini. Insomma, l’Orto Botanico è legato ai Basile...».

Oggi Villa Giulia è abbandonata. Che effetto le fa?

«Tutte le volte che vado a Villa Giulia, piango: non è più curata, i fiori sono scomparsi e con loro, gli odori. Quarant’anni fa i giardinieri, ad ogni stagione, cambiavano le piante fiorite. Le statue erano rispettate, io le guardavo e chiedevo a mio padre se raffigurassero dei morti, come al cimitero, e il mio vecchio mi spiegava cos’è un cenotafio: un luogo fatto di grandi uomini da rispettare. Ma io faccio parte di un’altra generazione, di palermitani che non pigliavano a sassate le statue né facevano loro i baffi. Sono disgustato dello stato in cui hanno ridotto la città, lasciata in balìa di piccoli mascalzoncelli che distruggono ogni cosa. Un tempo i guardiani ti riprendevano se coglievi un fiore, oggi i vigili si girano dall’altra parte. Ogni bambino della mia età aveva una foto in cui era infilato nella vasca del Genio: Villa Giulia, per chi è nato da queste parti, è stata una compagna di vita».

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